Perché bisogna innamorarsi

Ieri sera mi chiedevo cosa di preciso sarei andato a fare in quella ditta di grafiche industriali. Avrei parlato della Spei, delle persone che ci vivono e lavorano dentro. Ma perché?
Al mattino, appena sveglio, l’ansia del primo appuntamento: stavo diventando un commerciale? Camicia, jeans scuri, cardigan, una bella cintura di Armani. E poi nella borsa l’agenda, il portafogli, tre copie del libro: un numero perfetto, e non si sa mai.
Il titolare dell’industria grafica è un tipo solare, gli occhi chiari sulla pelle candida e serena. Gli porgo una copia del libro e comincio a parlare; dico molto di Aziz, di me, degli ultimi ragazzi arrivati, disegnatori in fieri: Andrea lavora per una ditta di Sassuolo. L’uomo che ho davanti ascolta e fa domande; non sbalza dalla sua sedia quando dico che chi arriva in via Cattaneo 48 è mandato da Maria e crescerà sul lavoro, perché crescerà di spirito.
«Cerchiamo gente che si innamori di noi»: e allora entrambi lo speriamo un lavoro, qualcosa che un giorno ci possa portare davanti alla stessa postazione. «Perché siete voi». E mi consiglia di passare dalle due ditte di fronte la sua, che non conosce di persona, ma fanno disegni. Perché si innamorino anche loro. E possano vantare sui loro cataloghi di averci dato lavoro; alla Spei proprio.
Esco e accendo la macchina, faccio per tornare a casa. Ma quando prendo dalla borsa le Marlboro, vedo lì i due libri rimasti. E vedo le due ditte meccaniche; due montagne di cemento. In una c’ero stato anni fa per lasciare un curriculum, perché la titolare era amica di mio padre.
È la zona commerciale di Enzo; lo chiamo e non risponde. Allora telefono a Stefano, che inizia a pensare al “se” e poi al “ma”. Insisto, perché ho due libri rimasti ancora in mano; mi dice d’andare.
La prima ditta in cui entro è un colosso, segnaletica interna, sensi unici e divieti di transito ovunque. Entro da una porta automatica in accettazione; il tipo dietro al banco infreddolisce quando dico che non siamo fornitori della ditta; insisto un poco con garbo, e riesco a farmi assicurare che il libro finirà nelle mani del responsabile dell’ufficio tecnico.
Secondo passo, l’ultimo libro rimasto. Entro nel giardino della seconda ditta consigliatami al primo appuntamento, e infilo subito la scarpa in una pozzanghera di fango. Entro lo stesso, e non c’è nessuno; ho il tempo di battere ben bene il piede sullo zerbino, far pulizia. Arriva alla reception una ragazza, e chiedo direttamente della titolare.
Mi riceve dopo soli cinque minuti, sono fatto accomodare. Sapeva da mio padre del libro, lo tiene tra le mani, e ricomincio a parlare: di Stefano, di Oana, di Aziz; di me, che mi sapeva scrittore; e poi di Dino, l’ultimo ragazzo arrivato in ufficio. È stata una buona mezzora di parole, di storie e cambiamenti raccontati; parlavo sulla mia pelle, con la mia voce.
«Sapere che questo succede in una ditta, fa commuovere. Come si chiama il titolare?». Non le dico le pagine in cui racconto d’aver pianto, perché leggerà il libro. Chiede come facciamo a stare in piedi, e allora parliamo di lavoro: progettazione, messe in tavola, manuali. Hanno un ufficio tecnico anche loro. Ci sentiremo. Mi ringrazia e ci stringiamo la mano.
Esco dalla ditta con molto più di una bella sensazione; accendo la macchina, la sigaretta, un segno di croce e torno a casa.

giorgio casali