LAVORARE PER GESU’

Francesco ha una quarantina d’anni ed è responsabile gestione qualità presso una importante ditta di Modena. “Riconvertito” nel 1998 dopo un’adolescenza passata lontano dalla Chiesa, ha frequentato vari gruppi di preghiera, tra cui Rinnovamento nello Spirito e i Figli di Maria di Fra Santo, che avevano base a Nirano. Dopo aver conseguito una laurea in Ingegneria dei materiali, non riuscì a fare il dottorato, nonostante fosse portato per un lavoro di ricerca. Si “riciclò” in una ditta meccanica dal 2002 al 2007, quando arrivò a licenziarsi per mancanza di prospettive oltre che di soddisfazioni personali. Dopo aver passato un anno “terribile” della propria vita, lasciò i genitori per andare a vivere in un appartamento a Modena. Passò due anni a svolgere alcuni lavoretti, fino al 2009. Nel 2008 intanto, durante un pellegrinaggio a Medjugorje, conobbe la donna che diventerà sua moglie e che gli darà due figli.

 

 Quando hai lavorato alla Spei?

Ci ho lavorato sostanzialmente tre anni, in due periodi. Nel 2010 mi ero appena sposato quando trovai un lavoro a tempo indeterminato. Alla fine di quello stesso anno, la ditta – che aveva già enormi problemi finanziari, a mia insaputa – fallì. Persi improvvisamente il lavoro, non mi pagarono neanche tutti gli stipendi: intanto, nel febbraio del 2011 era nato il nostro primo figlio. Ero alla ricerca disperata di qualunque impiego, fosse pure l’insegnante di materie tecniche, esperienza che avevo già provato a fare, con esiti devastanti. 
Attraverso un amico [, Luca Canepari,] conosciuto ad un gruppo di preghiera, arrivai alla Spei, dove feci il colloquio nella primavera del 2011. Quel giorno ero molto fiducioso, sapevo del “discorso spirituale” della ditta, un motivo in più per provarci. Ricordo che quando entrai nell’ufficio mi sentivo come “spiato” dalla statua della Madonna incastonata nella scrivania di Stefano, mi sembrava di aver puntata addosso una webcam. Guardammo un film di Ferzan Ozpetek, “Cuore sacro”: non riuscivo a capire se la Spei volesse o meno offrirmi un lavoro, perché di lavoro non si parlava. 
Nonostante le cose non mi fossero del tutto chiare, cominciai a frequentare gli uffici ogni giorno per imparare il disegno meccanico: se la Spei non mi avesse dato una prospettiva lavorativa, mi avrebbe comunque formato professionalmente nell’utilizzo di un programma di avanguardia come PRO-E. Nel giro di un mese, un po’ con Stefano e un po’ autodidatta, imparai ad usare il programma, fino a quando non iniziai a lavorare in CNH come dipendente Spei. 
Dopo un anno, nel settembre 2012, mi scadde il contratto, che non venne rinnovato perché il periodo per la ditta era molto difficile, lavorativamente parlando: rimasi negli uffici a mo’ di volontario, insegnando il lavoro ai nuovi arrivati [Gianluca, Oana], mentre mi guardavo intorno, in cerca di una nuova occupazione. Passò così quasi un anno, periodo in cui Stefano stava pensando di duplicare l’esperienza Spei a La Spezia, dove avrebbe raggiunto la propria famiglia, trasferitasi lì da poco per esigenze lavorative della moglie. Mi fu proposto di prendere in mano il timone della Spei a Modena, e continuare così la missione dove era nata: avrei bene o male ricoperto il ruolo di Stefano – coordinamento generale, aspetto commerciale e disegno meccanico, con tutti i pro e i contro del caso.

 

Cosa intendi dire?

La gestione della ditta sarebbe dovuta rimanere alla “Stefano Pesaresi”: oltre all’evangelizzazione spinta – io non ho il suo background, né la sua fede nei “segni provvidenziali” che spesso fatico a riconoscere – mi sarebbe risultato molto difficile gestire l’aspetto commerciale con le ditte alla sua maniera: non dico “mentire” sulle capacità dei miei colleghi, ma quantomeno accettare ogni lavoro che mi sarebbe stato proposto, pur non avendo uomini in grado di portarli a termine, e me compreso – posso dire di “non avere brillato” nel ruolo di disegnatore per almeno un paio di volte (ride, ndr). Insomma, per essere commerciale bisogna saper raccontare “un sacco di balle”, e io non ci riesco. Stefano dice sempre che “dove non arriviamo noi arriva la Provvidenza”: forse il fatto di non accettare completamente una cosa del genere, e il conseguente vivere certe situazioni “di rischio” con ansia, è indicativo di una mia fede ancora traballante…

 

Non credo che vivere con ansia un rischio imprenditoriale significhi non avere fede.

È vero, ci sono anche aspetti caratteriali con cui bisogna fare i conti. Fatto sta che non sarei riuscito, come fa Stefano, a vivere la ditta “alla giornata”, sempre in balìa degli eventi come gli apostoli che “non hanno un posto dove appoggiare il capo”, che oggi sono qui e domani sono là. Una cosa del genere non mi avrebbe permesso di vivere la vita serenamente, avrei vissuto al di sopra delle mie possibilità: ho fatto i conti con il mio livello ed il mio cammino. Solo Stefano può fare con la Spei quello che fa, per le esperienze forti di affidamento che ha fatto e che vuole continuare a fare: effettivamente, solo se sei nel fango il Signore può tirarti fuori.

 

Come andò a finire? Accettasti di prendere il suo posto?

Tutto era ancora ad uno stadio progettuale quando, nello stesso periodo, una ditta di Modena mi offrì un allettante lavoro, specifico per la mia formazione: insomma, quello che avrei voluto e che ero in grado di fare. Avevo davanti una scelta difficile – per due giorni il mio corpo reagì allo stress con un blocco gastrointestinale, un fatto stranissimo, non mi era mai successo. Quando ero praticamente deciso ad accettare la proposta di restare, Stefano fece un passo indietro, e l’idea delle “due colonne Spei” tramontò – quantomeno venne messa da parte. Evidentemente aveva rilevato che mancavano le risorse economiche per fare un passo del genere.

 

E la Provvidenza?

Non lo so. Anche Stefano, da cristiano, ha combattimenti interiori. Una parte umana da combattere. I conti sa farli: quando non ci sono risorse e bisogna prendersi il rischio sta proprio lì l’atto di fede. Con consapevolezza. Stefano mi suggerì di provare a lavorare con la ditta che mi aveva contattato e, tra una cosa e l’altra, finì che la Spei mi riassunse nel marzo del 2013 per lavorare come esterno proprio per la stessa ditta, a gestire il controllo della qualità. In questo modo la Spei avrebbe ricevuto introiti, ed io mi sarei presentato con un maggiore potere contrattuale, avendo già alle spalle un contratto a tempo indeterminato. Dallo scorso marzo, in effetti, sono stato assunto da quella ditta a tempo indeterminato. È stato un fatto provvidenziale, dal momento che mi era nata una bambina e avevo bisogno di una maggiore tranquillità e solidità per la mia famiglia. Adesso riesco a gestire tutto senza angosce.

 

È cambiato qualcosa in te durante gli anni alla Spei?

Ho ricevuto un grande sprone a “buttarmi”, a rischiare sempre di più nella testimonianza di cristiano. Questo è stato il cambiamento più importante che ho vissuto durante gli anni alla Spei. È vero che nella ditta in cui lavorai dal 2002 al 2007 ho sempre cercato di essere testimone, ma non sempre ci riuscivo. Alla Spei ho trovato terreno buono per vivere la mia vita di cristiano con maggiore coraggio, grazie ad un affidamento continuo nella Provvidenza: sapendo di non essere più solo, la mia testimonianza all’esterno si è amplificata. Il Signore mi ha preso per mano e mi ha fatto recuperare trent’anni di vita, mi ha rimesso su una strada in cui potevo camminare. Ho capito fino in fondo che non è possibile scindere la vita lavorativa da quella di fede, che bisogna essere cristiani ventiquattr’ore al giorno – e che bisogna lavorare per Gesù. Anche se non sono più alla Spei, porto ancora con me questo insegnamento: quando manco di costanza, me ne accorgo e ricomincio da capo ad affidarmi.

 

Cosa significa “lavorare per Gesù”?

Significa non scendere a troppi compromessi con la coscienza. Nello specifico, non obbedire ciecamente a certi ordini che vengono dalla direzione dell’azienda se non sono onesti – ad esempio quando c’è un problema ma certifico che non c’è. Significa anche, se necessario, sacrificare parte del mio lavoro per aiutare un collega che è rimasto indietro ed ha bisogno di me: fermarmi ed ascoltarlo – anche solo per problemi personali – ovviamente in compatibilità con gli orari d’ufficio e nel rispetto del datore di lavoro. 

17/08/2014