LE LEVETTE DA MUOVERE

Trent’anni appena compiuti, Baldassarre è “scappato” dal suo paese d’origine, Scafati, nel 2009. È perito meccanico e lavora come impiegato tecnico in una ditta di Mirandola. Ha lavorato alla Spei come disegnatore e manualista fino al luglio 2011, con un matrimonio di mezzo.

 

 

Come sei arrivato alla Spei?

Sono arrivato dopo una lunga serie di eventi, nel maggio del 2009. In quel periodo mi ero trasferito dalla mia città di origine, Scafati, in provincia di Salerno, a Bologna, dove condividevo un appartamento con la nipote acquisita di Stefano [, Laura]. Era un momento di svolta della mia vita, avevo deciso di finire il ciclo che stavo percorrendo per iniziarne una nuovo. La vita è fatta di cicli… A un certo punto, in qualche modo, devono finire: e quando ne finisce uno, ne inizia un altro.

 

Quale ciclo avevi finito?

Io lavoravo, avevo un impiego presso un’azienda di carpenteria metallica. A differenza di quello che si pensa, nel Sud c’è lavoro, ma bisogna sottostare a compromessi che sono tipici della zona: il mio ambiente era a conduzione famigliare, i ritmi erano diversi. Non avevo cartellini da timbrare, ma facevo molto più di otto ore al giorno. Era un contesto che ti orientava verso due stadi: 1. Vengo e faccio quello che mi è richiesto, né più né meno, con tutto quello che ne consegue; 2. Sposo la causa della ditta, faccio tutto quello che posso fare, fino ad entrare in un rapporto simbiotico con i datori di lavoro: fu la strada che presi. Diventai amico dei proprietari e lavoravo solo per loro – da apprendista arrivai ad un contratto a tempo indeterminato. Poi arrivò un momento di inflessione del lavoro, che mi destò dall’entusiasmo: i miei capi licenziarono alcuni dei miei colleghi, alcuni con buoni motivi, altri – a mio parere – assolutamente no. Non ero per niente d’accordo con loro su diversi argomenti, e visto che la ditta non era mia ma loro, decisi di andarmene.

 

A Bologna arrivasti già con un lavoro?

No, assolutamente no. Scelsi Bologna perché era geograficamente strategica: in mezzo al Nord, equidistante dai centri più grandi, cercai contatti nel capoluogo emiliano. Avevo un amico che viveva lì, mi aiutò a trovare una stanza che mi facesse da campo base, così arrivai nell’appartamento di Laura. Abitai lì due mesi – mentre facevo qualche lavoretto a distanza con la mia vecchia ditta, per mantenere la permanenza a Bologna e il tempo di ricerca di lavoro. Poi il 3 luglio 2009 trovai casa a Mirandola, dopo essere arrivato alla Spei: Laura sapeva che il mio profilo tecnico avrebbe potuto interessare suo zio, così mi mise in contatto con lui e feci il colloquio. Al tempo, la Spei aveva un cliente a Mirandola [Sorin], e andai a lavorare lì. Quello stesso mese mi raggiunse la mia fidanzata [Carolina], che adesso è mia moglie. Ho lavorato due anni alla Spei.

 

Quando ti sei sposato?

L’8 settembre 2010, dopo circa un anno che lavoravo alla Spei.

 

Come fu il colloquio?

Un pochino sui generis, non è il colloquio che uno si aspetta di sostenere quando cerca lavoro. Si parlò molto poco delle mie competenze, fu molto conoscitivo. Stefano mi fece domande sul mio trascorso, sui motivi che mi avevano spinto a venire al Nord, come mai da Bologna cercavo un lavoro a Modena, che musica ascoltavo eccetera… Successivamente iniziai ad imparare PRO-E, nell’attesa che capitasse un lavoro che si potesse sposare con il mio profilo. E arrivò appunto la chiamata della Sorin, che voleva incrementare l’organico.

 

Fu Stefano a dirti che era in attesa di un lavoro?

No. Penso sia una costante del suo comportamento, l’ho visto fare anche con altre persone arrivate alla Spei dopo di me: uno arriva, non si sa dove impiegarlo, ma prima o poi qualcosa esce: e se non esce qualcosa significa che non era il momento per te di arrivare lì.

 

In quanto tempo è arrivato il tuo momento?

Secondo me nell’arco di una settimana, dieci giorni… Non ricordo bene. Per un po’ feci la spola Bologna-Mirandola, poi trovai casa vicino al luogo di lavoro: appena trovato un appartamento decente, intimo, mi raggiunse la mia ragazza.

 

Cosa fa tua moglie?

È laureata in sociologia, ma adesso lavora in un supermercato [Coop]. Da quando è qui ha fatto un sacco di corsi, ha un impiego a Mirandola.

 

Com’era per te lavorare alla Spei?

Non ho fatto molta fatica a sposarmi col modus operandi della ditta, perché tendenzialmente non sono troppo legato a degli schemi. Vidi che altri fecero molta fatica, alcuni erano completamente avversi – quantomeno meno convinti [come Serena] – sia a Stefano sia al progetto Spei. Capisco che uno che arriva e si aspetta tutta una serie di cose da un datore di lavoro… Una ditta di progettazione di pezzi meccanici, l’apoteosi dello schemismo… Invece ti trovi completamente smontato in quello che pensavi, devi scegliere tra l’andartene subito oppure vedere “fino a che punto si arriva”, oltre a capire fin quanto dura il tuo ruolo lì dentro, il tuo ciclo… Non nascondo che è un modo di stare in azienda che non trovi da nessun’altra parte: se sei vincolato a degli schemi reagisci con “no, io ‘sta roba non voglio farla”; se non sei vincolato a degli schemi, come penso di essere io, pensi “ok, la cosa ha del buono”. Alla fine diventa un allenamento spirituale, e deve partire da te, da una scelta personale. Iniziare a leggere il Vangelo, allenare il tuo spirito…

 

Per te fu una scelta facile?

A me non ha comportato alcun sacrificio. A volte c’erano delle difficoltà oggettive, perché al lunedì mattina dovevo andare in ufficio a Modena, invece che alla Sorin, a pregare. Difficoltà che io non ho mai patito, ma alcuni sì [come Aziz]. Al tempo in Sorin c’erano [Serena], [Souad], [Gabriele Rizzo]… Eravamo in cinque o sei. Successivamente l’atteggiamento di Stefano ha iniziato a scontrarsi anche con la politica di Sorin…

 

Come mai?

Perché lui quando va in giro a fare pubblicità alla ditta, descrive la Spei sia sotto il profilo tecnico, sia nelle finalità, ovvero raccogliere persone che hanno un potenziale che non riescono a mettere a frutto per una serie di eventi. Stefano le accoglie suo malgrado e aspetta che per ciascuno si verifichi un’opportunità: ciò fa storcere un po’ il naso ai potenziali clienti, che dicono <<Ma tu veramente lavori così? Fai una ONLUS che è meglio…>>. In quei casi “o la va o la spacca”: o trovi quello che non vede l’ora che te ne vada, o trovi quello che aspettava da tempo proprio una proposta del genere [Barbanti], che si va ad allacciare ad una sua esperienza pregressa. Ci sono vari casi. Molte volte uno fa fatica ad ammettere quel senso di impotenza a cui bisogna necessariamente sottostare se decidi di stare a questo mondo: ognuno pensa di essere artefice totale del proprio destino, che le situazione di cui gode sono collegate esclusivamente al proprio modo di pensare, alle proprie decisioni… Invece vedere l’atteggiamento diverso del capo fa notare delle “stridenze”: il malumore a volte era tangibile.

 

Parli anche della tua esperienza?

Ci sono volte in cui il raziocinio prende il sopravvento sulla parte spirituale, e allora pensi “Ma qui i conti non tornano”. Al tempo della Spei non ero responsabile solo nei miei confronti, ma anche verso quelli della mia ragazza: non ero più completamente autonomo, lei non lavorava e compiere passi falsi avrebbe significato mettere a repentaglio anche la sua sicurezza puramente materiale. Mi veniva lo sconforto, ma tutto veniva subito bilanciato da notizie improvvise che, come fulmini a ciel sereno, dicevano “non c’è bisogno di preoccuparsi”, e di colpo la situazione si risolveva. Posso fare un esempio: quando finì il lavoro alla Sorin, nell’arco di un paio di giorni venne fuori quello alla CNH. Il reimpiego fu abbastanza veloce, tale da annullare due giorni di sconforto. Ciò è diventato il leit motive della mia vita… L’ho capito anche da cose capitatemi dopo il periodo Spei: ci si illude di avere il controllo su tutto, ma non è assolutamente così. Se a questa cosa vuoi dare uno sfondo di tipo trascendente, della serie “c’è qualcosa di superiore a me” e gli affidi un nome iconografico – Gesù, Dio, Madonna – ti servi di queste figure per fare allenamento di spirito: per fare la preghiera ti rivolgi a qualcuno.

 

Prima della Spei pensavi di essere l’artefice totale del tuo destino?

No, non l’ho mai pensato, ma ovvio che essere in un contesto dove questo modo di pensare alternativo è predicato ed è profuso ovunque, per induzione cominci ad assumerlo “tuo malgrado”, e magari anche in forma inconscia. Poi, se riesci a conservare “il lupo e l’agnello” che ti sono stati affidati, in qualche modo trovi anche la chiave di volta di questo pensiero, ovvero sai bilanciare la parte fredda, materiale, razionale con quella spirituale, emotiva, e meno razionale che ti fa dire: “Guarda, non c’è bisogno di affannarsi”.

 

Dopo la Spei che lavoro hai fatto?

Un’altra delle conferme… Mi sono licenziato dalla Spei nel maggio del 2011, perché il ciclo era finito. Quando una cosa finisce bisogna essere bravi a non raccontarsi delle balle, perchè è molto facile – la persona più credulona che puoi incontrare è te stesso. Fare una critica oggettiva di te stesso richiede un allenamento spirituale maggiore: tutti possono farla ma non tutti la fanno. Nel mio caso, il mio modo di essere era arrivato a compimento: alla Spei non potevo né più dare né più ricevere. Dopo che mi sono licenziato ho cercato lavoro in un raggio di 100 chilometri: m’era venuto il pensiero razionale di dire “Ecco, ho fatto la fesseria più grande che potessi fare: avevo già un lavoro e sono sposato da un anno”… Dopo – sarà stato un segno, una conferma materiale…  – mi ha chiamato un’azienda a due chilometri da casa per fare il mio lavoro, con un contratto definitivo, a tempo indeterminato – e non è detto che sia poi definitivo, perché sottostiamo all’ordine caotico delle cose, per cui non è detto niente… Potrei ritrovarmi a pulire vetri al semaforo… Le sicurezze materiali a cui la gente si aggrappa prima o poi cadono. La Spei, in ognuno, ha mosso delle levette: in alcuni quelle giuste, in altre quelle meno giuste: ma la cosa sicura è che non è stato Stefano a decidere quali levette muovere, lui rimaneva ad aspettare che le cose succedessero; e quando succedevano, ognuno reagiva secondo la propria natura: chi doveva restare è restato, chi no – come me – se ne è andato.

 

A te che levette ha mosso?

Nel mio caso specifico, mi ha fornito la motivazione più comprensibile delle ragioni per cui sono andato via dalla mia città di origine… Dove c’è povertà materiale c’è inevitabilmente anche povertà di spirito, perché si dà più peso al desiderio di cose, al contrario di posti in cui si può creare una tranquillità diversa… Ovvio che tutto è legato alla tua natura. Arrivato qui ho consolidato un mio modo di essere, ma non abito certo nella zona più cattolica d’Italia – a Mirandola, Bologna, Modena, la tendenza è diversa… Dove lavoravo prima si parlava solo di soldi, di vacanze… Anch’io subivo, in quel contesto, quella tentazione: entrato alla Spei, siccome il modo di fare era agli antipodi, ho capito che non scappavo da Salerno per questioni di soldi, ma proprio da un ambiente con poca spiritualità. Capire questo è stata la levetta che ha mosso la Spei. Chiesi a Stefano un contratto a tempo indeterminato, che mi permise di ricevere un prestito dalle banche perché mi volevo sposare – non sai quanti soldi servano per il matrimonio…

 

Quando avete deciso di sposarvi?

Nel momento in cui abbiamo deciso di vivere insieme: l’impegno spirituale e morale di condividere il bello e il brutto tempo l’abbiamo assunto prendendo casa insieme. È stata una scelta totalmente implicita, che non c’è stato bisogno di spiegare. Una cosa che, veramente, auguro a tutte le persone che decidono di vivere una vita di coppia, in qualsiasi forma.

 

Quindi non avete deciso di convivere pensando “vediamo come va” ma “iniziamo così perché ci sposiamo”.

Sì… Non abbiamo pensato “se litighiamo ci lasciamo”. Nel momento in cui ho deciso di prendere questa strada – allontanarmi da Salerno, dove viveva anche mia moglie – lei mi ha detto che dovevo fare quello che volevo – “dona ali a chi ami” – e mi ha spronato in questo senso. Carolina, che pure aveva una situazione di stabilità, mi ha seguito subito. Secondo me ci siamo sposati in quel momento lì. Dopo abbiamo dovuto “formalizzare” per esigenze legali in comune… Potevamo anche fermarci lì, ma siccome siamo convinti che un’unione così forte non può essere descritta da qualcosa di analitico, abbiamo deciso di consolidarla con qualcosa di sacro: quindi ci siamo sposati in chiesa.

 

Siete credenti entrambi?

Sì, e praticanti alla nostra maniera: nel senso che non stiamo a dire il rosario tutti i giorni… Noi non facciamo dei calcoli, tutto quello che abbiamo realizzato è stato affidato al “caso”, compresa la nascita di nostro figlio, Giovanni: non l’abbiamo cercato – anche se sappiamo come si fa [ride] – è arrivato, nascendo dalla sera alla mattina, prima del tempo, scardinando tutte le previsioni e le analisi dei dottori. Le doglie sono iniziate in macchina mentre stavamo andando in vacanza… Tutti abbiamo dentro un vuoto, amorfo, e dobbiamo innanzitutto scovarlo, poi riempirlo con un “centro di gravità”: io l’ho colmato con la spiritualità.

 

È difficile capire in che senso, per te, l’esperienza Spei – il suo ciclo – è terminata… Quel “non riuscire più a dare né a ricevere”…

Sicuramente nulla di materiale. Lo stipendio è sempre arrivato, il problema non era quello. Il dare-avere non era sul piano pratico… Avevo deciso di affidarmi alle mie sensazioni, voleva dire che quel vuoto che ho deciso di colmare aveva quella forma lì [cioè concludere l’esperienza Spei]. Non dovevo raccontarmi delle frottole: aprivo gli occhi per trovare le conferme del modo di ragionare che ho cercato di adottare e non avevo più dubbi su quello che facevo. È una maturazione, che avviene per stadi: e il ciclo si chiude.

 

Stefano cosa disse del licenziamento?

Gli avevo detto per tempo che ero intenzionato a licenziarmi, e lui mi chiese: “E poi cosa fai?”. Non riuscivo a dargli delle motivazioni oggettive, ponderate… Sentivo che lì avrei dato ben poco, e quando una dà poco arriva a pretendere di più: ma non sarebbe stato nella mia natura. Probabilmente la motivazione del “dar poco” fu sufficientemente esaustiva per Stefano, e non mi fece altre domande. Mi chiese se avevo già trovato un altro lavoro, risposi che avrei iniziato a cercarlo solo dopo aver lasciato la Spei. In lui sorse disappunto, in quel periodo era molto premuroso nei miei confronti: non voleva interrompere il contratto prima che io non avessi trovato altro, però io non mi sentivo di iniziare una ricerca senza terminare l’esperienza – è come avere una ragazza e cercarne un’altra…

 

Sembra che fossi “più Spei” tu che Stefano in quel momento…

Se la vuoi mettere così…

 

Avevi più fiducia tu che lui…

Ho fatto esattamente così. Stefano diceva che non poteva mandarmi a casa se io non avevo da vivere… <<Come farai a mantenerti?>>.

 

Viene da dire “sei matto”, contando che era il 2011, l’apice della crisi…

Infatti non rischierò una terza volta [ride]. Ho assunto il concetto del “qui e ora”, e non lo devo a nessuno, soltanto a me. Quello che c’è di buono in me lo chiede: <<Fai il tuo dovere>>, che sia sul lavoro o in casa, padre e marito, a prescindere dalle distrazioni che avvengono – non è che abbia l’aureola in testa, ho anch’io i miei peccatucci, ma faccio sì che siano messi in un angolo recondito, perché emerga il buono che c’è in me.

 

La preghiera alla Spei era una novità per te?

Vengo da Scafati, un paese vicinissimo a Pompei, che non è famosa solo per gli scavi romani. C’è un santuario, quello della Madonna di Pompei. Quando sono arrivato a Mirandola, nel cuore della Bassa, sono entrato nel Duomo: arrivo dall’altare, mi giro a sinistra e c’era una gigantografia della Madonna di Pompei… A Mirandola! Se uno vuole aprire gli occhi può capire che sta mettendo i piedi sulle mattonelle giuste… Sono assunzioni di verità: le conferme arrivano a profusione. E ce ne sono state tante, questa è una di quelle… La Spei è stata la cornice di queste conferme, il valore aggiunto, che ha racchiuso tutto il mio modo di pensare e di essere dicendomi <<Tu sei qui perché stai cercando questo>>: e Stefano, secondo me, non l’ha fatto con la consapevolezza di un guru… Anche lui ha aspettato che le cose succedessero e saltassero fuori. Altri [della Spei], verso le stesse pratiche a disposizioni di tutti, hanno manifestato ostilità.

 

Proviamo a riassumere. La “cornice Spei” ha confermato i motivi per cui eri scappato dal Sud: lasciare un mondo pianificato e trovare un altro mondo… Ma quale?

Non riesco a descrivere il contesto esterno, metto in discussione la mia natura. Dov’ero prima ricevevo degli impulsi dall’esterno che non erano rispondenti alla mia natura. A Scafati la densità demografica era enorme, la voglia di trovare un lavoro che non fosse solo mera retribuzione veniva meno… Qui invece ho trovato un contesto dove quella che dalle parti mie era intesa come “desolazione” qui è “tranquillità”. La fantomatica ospitalità dell’Italia del Sud a volte è legata ad usanze, non a sentimenti: <<Tu vieni a mangiare a casa mia, ma sei l’ospite!>>. Qui le persone sono molto più chiuse… La prima uscita con un modenese mi è capitata dopo sette-otto mesi che ero qui: ma quando sono uscito sono stato trattato alla stregua di uno di Cavezzo.

 

Quello che hai trovato dunque è stata una nuova terra?

Un contesto da cui scaturiscono sensazioni che più si confanno alla mia natura. Non devo prestare attenzione a quello che mi vuole tamponare perché vuole fare lo “sgobbo” sull’assicurazione… Giù questa cosa è diffusa. Anche l’avvocato, che ha studiato e ha frequentato ambienti diversi da quelli della strada, tendenzialmente fa così.

 

Vuoi dire che tu hai il Nord nel DNA e finalmente ci sei arrivato?

Può essere che ci sia stato un ricongiungimento in questo senso, magari in qualche vita passata ero del Nord [ride]… Spiegandola a livello pratico può essere. In questo contesto c’è qualcosa che mi stimola diversamente da com’ero Giù, per questo riesco a fare più attenzione al mio essere interiore che a quello esteriore.

 

Ora che hai trovato una “nuova terra”, come vedi il Sud?

Mi manca qualche posto bello, quelli dell’infanzia. Ma fare la spesa, andare all’ufficio postale, girare il paese… Quello non mi manca: vedo la stessa gente sempre sullo stesso muretto, sulla stessa panchina, fare le stesse cose… Sono spente, non si aprono al cambiamento. Questa è la visione della situazione del contesto in cui ero. Tu cambi quando ammetti di essere obbligato a guardarti dentro.

 

Cosa dovrebbe cambiare?

Deve cambiare il modo di pensare. Se stai sul muretto per cinque anni, vuol dire che non hai cambiato di una virgola il tuo modo di pensare. Se solo ti fossi accorto che non hai concretizzato nulla nella tua vita… Magari la tua massima aspirazione è stare sul muretto, allora hai raggiunto la pace dei sensi… Ma la mia massima aspirazione – che non so neanche quale sia – sicuramente non è quella. Più che mettersi alla ricerca di qualcosa, bisognerebbe fare un viaggio dall’esterno all’interno, colmare il vuoto, e metterci dello spirito. Questo nuovo fondamento ti spingerà in maniera intuitiva – e se vuoi miracolosa – verso qualcosa di buono. Da bimbo sono stato fortunato: invece che andare alla scuola calcio, la mia famiglia mi iscrisse a un corso di arti marziali. Erano insegnate più come disciplina che come sport, con tutto l’apporto filosofico che c’è dietro: imparai a prestare attenzione al mio comportamento, all’osservanza di regole per il buon vivere con sé stessi e in comunità, al rispetto per la propria persona e per la propria indole… Le discipline marziali hanno tutte quante uno sfondo religioso, che non è quello cristiano o cattolico ma tendenzialmente politeista: tutte hanno un rispetto ossessivo verso la natura, quello che c’è intorno – lo spirito dell’acqua, del riso, della mutevolezza, di ciò che cambia: non puoi intercedere nell’ordine naturale delle cose perché da millenni avviene così e tu devi rispettarlo. Definire ciò come scintoismo, ebraismo o cristianesimo diventa solo una questione di catalogazione – l’uomo cataloga perché è fatto così…

 

Però se uno prega la Madonna prega la Madonna, non qualcos’altro.

Esattamente: quello diventa un esercizio spirituale, un riferimento che ti è vicino. Sai che quando eserciti il tuo spirito svolgendo delle preghiere – che è il nostro metodo convenzionale per farlo – verso un’immagine spirituale, senti che questa cresce quando fai quell’esercizio. Io tendo un poco all’agnosi, se uno volesse in qualche modo catalogare il mio orientamento religioso: Dio non è per forza in chiesa o appeso a un crocifisso ma è qui, in qualsiasi posto vedi dei segni che ti riconducono a lui: in questo la Spei ha aperto gli occhi a tutti. Alcuni hanno ammesso questa verità, e fatta propria – penso di essere tra questi, con molta modestia – per altri è solo un “caso”, ed ecco che il caso diventa una motivazione come un’altra per giustificare un evento. La mia preghiera è volta a quelle immagini lì [cristiane] perché sento che la mia spiritualità, lì, s’accresce, e con essa accresce anche il senso di buono.

 

Vuoi dire che la tua spiritualità è colmata con l’immagine del cristianesimo?

Io colmo la mia spiritualità facendo bene il mio dovere. Secondo me è “peccato” anche sprecare un momento in cui puoi essere al meglio di quello che sei e non lo sei, perché c’è gente che vorrebbe esserlo ma non può esserlo. Assunto il dovere arrivano tutte le altre assunzioni che ti si inculcano: comandamenti, sacramenti e tutto quanto… Nelle arti marziali ci sono varie fasi di maturazione, indicate dal colore delle cinture: arrivati alla massima, che è la nera, pensi di essere arrivato ma in realtà è lì che inizia il vero percorso, un percorso che non ha più cinture. Consegui la consapevolezza che c’è qualcosa in te che stai colmando, e allora devi identificare tutte le cose che possono succedere e che ti permettono di accrescerlo. Accrescere la sensazione di spiritualità è la prima cosa da fare: al di là del pregare Gesù, o la Madonna, o Padre Pio, o tutti i santi che ci sono e che sono coadiuvanti alla spiritualità interna. Il cristianesimo è un valore aggiunto a questa mia pratica, che esercito per accrescere questa mia spiritualità: la pratica reiterata in Spei è innanzitutto una buona abitudine per chi decide di seguire un tale orientamento, e poi ti fa capire quanto sei disposto a farlo – o quanto non lo sei.

 

Il ciclo Spei è finito perché avevi qualche problema col cristianesimo?

No no. Dico questa: una volta, durante la riunione del lunedì, molti non capivano l’ostinazione di Stefano a voler mantenere questo appuntamento. Una volta, dopo i sette “Pater Ave Gloria”, Stefano lesse un passo del Vangelo in cui un contadino riteneva che la figlia fosse posseduta dal demonio, e andava in giro cercando qualcuno che la liberasse. Gesù gli disse che non doveva cercare nessuno, ma che doveva cercare in sé stesso la possibilità di poterla liberare: allora la figlia si sarebbe liberata… Ricordo che Stefano, nel leggere questa cosa, scoppiò a piangere, quasi a condividere in maniera così intima e profonda quello che stava leggendo. Mi dissi: “Allora, che altra conferma vogliono questi qui?”. Questa è stata la mia esperienza in Spei.

06/10/2014