Sulla vecchia strada cantonale dell’Orso, ormai inglobata nella zona industriale di Crevalcore, c’è una cascina conciata piuttosto male dopo il terremoto.
Quei due casolari contengono una piccola storia emiliana, una di quelle che gli analisti economici piazzano nella casella «fare sistema», e certe volte significa solo darsi una mano.
Nel 2008 il veterinario Michele e sua moglie Roberta, biologa, decidono che è ora di tornare al volontariato, il mondo dove si sono conosciuti.
Ci hanno pensato tanto, guardando crescere Beniamino, l’ultimo dei loro sei figli. «Il più bello» dicono sotto voce, per non farsi sentire dagli altri che magari sono gelosi.
Fondano una società senza fini di lucro, cominciano a produrre birra artigianale facendo lavorare una decina di ragazzi, disabili psichici come Beniamino.
Gli esiti della prima cotta sono decisamente rivedibili. «Abbiamo buttato via tutto…». Sentono parlare di due giovani di San Giovanni in Persiceto che si fanno la birra in casa, e li invitano a unire gli sforzi.
Manca ancora qualcuno che abbia fondamentali solidi. A Crevalcore pare ci sia un tecnologo della Heineken in pensione, vuoi vedere che magari ha voglia di insegnarci come si fa? «Ci ha cambiato la vita», ricorda Michele. «Gli dobbiamo molto, e lui non ci ha mai chiesto nulla in cambio».
Nel giro di quattro anni, il birrificio Vecchia Orsa e la sua squadra sono diventati un oggetto di culto nel mondo della birra non industriale. Nel 2012 hanno vinto il primo premio alla fiera internazionale di Rimini, che sta al luppolo come un torneo del Grande Slam al tennis.
Il giorno dopo hanno telefonato da Sidney: buongiorno, potete spedirci 7.000 bottiglie? Certo, ma mettetevi comodi che c’è da aspettare almeno due mesi, è la risposta. Adesso producono 300 ettolitri all’anno per 55.000 bottiglie, tutte etichettate dai ragazzi che lavorano intorno a un tavolo al pianterreno. Il fatturato si aggira sui trecentomila euro, che viene reinvestito in attività di sostegno ai disabili. «Non facciamo birra per tirare fuori dei soldi, non è questo che ci interessa».
Questa è la parte bella della storia. Poi è arrivato il terremoto. La stalla che faceva da magazzino sta crollando un pezzo alla volta, seppellendo con le macerie i fusti, il frigo dove si conserva il mosto e migliaia di bottiglie. La stanza al primo piano della casa, dove c’è la cella coibentata per lo stoccaggio può andar giù in ogni momento. Una beffa, perché quest’inverno il birrificio si sposterà in un capannone a San Giovanni in Persiceto. «Uno start up da 300.000 euro, il nostro piccolo investimento per stare più larghi». Ma fino a quel momento, lavorare sarà impossibile, e qui ci sono ragazzi che ne hanno bisogno, non solo per ragioni economiche.
Alla «Vecchia Orsa» ci siamo arrivati seguendo una mail spedita ai siti dei ghiottoni della birra. A loro insaputa, Michele e Roberta, donna minuta dallo sguardo dolce, sono un campione rappresentativo di questa terra. Non chiedono aiuto, hanno dentro un misto di pudore e orgoglio che impedisce di farlo, e di raccontare le condizioni in cui vivono.
A una distanza di trecento metri c’è un rudere che fino al 20 maggio era la casa dove vivevano. La prima scossa l’ha resa inagibile, la seconda l’ha fatta crollare. Hanno scelto di dormire in tenda rifiutando l’ospitalità degli amici, perché di notte Beniamino si sveglia per le scosse, si spaventa e insomma, bisogna stargli vicino. La quotidianità è diventata una fatica bestiale, la centralina è crollata, in ufficio non c’è più l’Adsl per comunicare con il mondo e stare dietro agli ordini. Isolati.
Ma queste cose loro non le dicono, le raccontano di nascosto i ragazzi. «Siamo con le zampe all’aria» è tutto quel che si riesce a cavare dalla bocca di Roberta. «Ho qualche apprensione per il nostro futuro» dice Michele. La situazione dovrebbe autorizzare appelli, richieste di solidarietà. Invece l’unica conseguenza è una specie di lista della spesa, limitata a poche voci. Ci serve un camion frigo da mettere in cortile e collegare alla corrente, e una tensostruttura da fiere per fare magazzino. «Si intende, solo per qualche mese, poi ridiamo tutto indietro». Al resto ci pensano Michele e Roberta, con l’aiuto di questi ragazzi che sotto a una piccola tenda vanno avanti a mettere etichette sulla birra. A proposito: è davvero buona.
CREVALCORE (Bologna) – «Se proprio vuole aiutarci, beva un bicchiere». Con il grembiule da lavoro, il sorriso e la barba importante, Michele Clementel sembra uno di quei frati trappisti stampati sulle etichette delle birre famose. Sorride, gli capita spesso. «Magari se le piace ne compra qualche bottiglia…».
2 giugno 2012 – DOPO IL TERREMOTO – Un camion frigo per fare riaprire il birrificio dei disabili – L’azienda d’eccellenza: «Basta poco». L’attività messa su da un veterinario e dalla moglie biologa DAL NOSTRO INVIATO Marco Imarisio – Corriere.it