Da dove diavolo sbuca fuori il killer?

La nutrita e cordiale comunità di connazionali in Lombardia non l’ha mai sentito nominare. Mai ha visto la sua faccia. Che poco racconta soprattutto a chi è abituato a vederci attraverso, a chi, come un investigatore, un magistrato, un viso non lo osserva: prova a respirarlo. Kabobo non ha mandato flash, messaggi indiretti, invocazioni d’aiuto; non ha sfidato e non s’è messo sulla difensiva. Al suo posto, poche settimane fa, era seduto Ivan Gallo, appena estradato dalla Spagna per l’omicidio del gioielliere Giovanni Veronesi. Sì, l’ho ammazzato, ho fatto una cazzata, non c’avevo una lira . Subito confessò, Ivan Gallo, diede movente e rese testimonianza. 

Il comandante provinciale dei carabinieri, il colonnello Salvatore Luongo, a un certo punto dà ordine di far muovere il Battaglione nei dintorni della geografia di morte, controlli, battute e ispezioni verso i parchi e i prati, uomini e mezzi come alla ricerca d’un latitante, oppure di un sequestrato, e più tardi arriveranno di supporto anche i cani addestrati, in una frenetica disperata caccia a un’eventuale baracca dove Kabobo avrebbe potuto dimorare e di possibili complici. Sembra comunque che abbia agito da solo. Come in carcere, a Lecce, il 19 gennaio di un anno fa, quando sotto gli occhi di altri detenuti e secondini, partì in missione per rubare la televisione in una cella confinante. Appunto lo sorpresero. Si vendicò devastando lo schermo. 
Jeans e maglietta l’abbigliamento di questo ghanese di trentuno anni. Non tracce di fango e venerdì sera su Milano s’era scatenata una tempesta di pioggia e vento, non pezzi di foglie rimasti appiccicati sotto le suole delle scarpe da tennis chiare. Nessun indizio di un appostamento preparatorio. Niente indizi di un pellegrinare nei giorni antecedenti il massacro. Nelle tasche non c’erano coltelli, temperini, cacciaviti, chiavi. Non c’erano documenti, fotocopie di documenti, bigliettini, scontrini. Non c’erano carte di caramelle. Non c’erano briciole di cibo. Non c’erano fogli protocollati che aggiornino sulla sua richiesta di asilo politico.

«Ascolta, dove hai dormito stanotte?».
«Io non dormo».
«E la scorsa notte eh? Forza, dove hai dormito?». 
«Io non dormo». 
Eppure una prima volta, e subito dopo, e poi ancora, socchiude gli occhi, dondola sulla panca, ondeggia, si accascia contro il muro, il mento che picchia sul petto, la testa incassata, le mani giunte, la bocca semiaperta, un rantolo, un goccio di saliva all’angolo, un rigurgito, e in mezzo ai carabinieri che vorrebbero sapere il perché della mattanza, lui non soltanto tace: si appisola come un qualunque pendolare sul treno la mattina presto che va a sbattere contro i finestrini appannati. Mada Kabobo, nei fotogrammi sfocati e spaventosi delle telecamere fisse, sembra un lavoratore diretto al cantiere, il piccone sulle spalle, un’altra giornata a faticare. 

Liberamente tratto da : Kabobo, il fantasma senza emozioni – «Io non dormo mai, adesso ho fame» . Il Corriere.it 12-05-2013