Nato a Milano cinquantuno anni fa, Enrico ha una formazione classica. È laureato in Lingue e parla il tedesco, l’inglese e il francese. Ha lavorato gran parte della sua vita come commerciale estero, girando il mondo. Dal 1998 è sposato con Ramona, una formiginese conosciuta alla Libera Università di Alcatraz: insieme hanno un figlio di quindici anni. Dopo un’esperienza di otto anni in un’azienda di Modena e un periodo vissuto tra disoccupazione e collaborazioni saltuarie, ha ricominciato a lavorare quest’anno nella ditta di suo fratello come responsabile commerciale.
Come e quando hai conosciuto la Spei?
Sono arrivato tramite la pubblicità dell’incontro di presentazione del vostro libro all’Oratorio di Castellarano, lo scorso maggio. Mi invitò Nicoletta [Spadoni], assistente sociale del Comune, nonché cofondatrice dell’associazione di disoccupati “Coraggio insieme si può”. Prima dell’incontro avevo guardato un po’ il vostro sito.
Nicoletta come ti presentò la Spei?
Mi disse di aver letto il libro, che le era piaciuto molto, e mi invitò a chiamare un bel po’ di gente all’evento, dal momento che sono uno dei volontari dell’Oratorio e il segretario di “Coraggio”. Comunque, mi lasciò molto nel vago. Parlò di un’esperienza molto legata alla fede.
Anche di lavoro?
Sì, ma con una forte componente di fede.
Cosa fa la vostra associazione?
È un’associazione di promozione sociale che raccoglie i disoccupati del nostro distretto ceramico, duramente colpito dalla crisi. Le persone che si rivolgono a noi provengono al 95% da quel settore. “Coraggio insieme si può” si cura della formazione del disoccupato, cercando di fornirgli qualche piccolo lavoro.
Cosa intendi per formazione?
Cercare di dare degli input per sviluppare una nuova professionalità. È molto difficile per alcuni essere ricollocati nel mondo del lavoro, sia per motivi d’età, sia per bassa professionalità e grado di scolarizzazione: vent’anni fa riuscivano a lavorare, adesso no.
Funziona l’associazione? Fate molti corsi?
“Dovremmo” fare molti corsi. L’unico progetto partito, al momento, è quello della sartoria: ci sono due donne che, oltre a lavorare per terzi, insegnano il mestiere agli associati.
Riuscite a fare profitto?
L’associazione può avere una minima parte di profitto che non può superare le entrate da donazioni e raccolte fondi. L’unica vera formazione al momento è quella da sarto: c’è comunque gente che, appena capisce che si guadagna poco o niente, se ne va. I piccoli lavori di riparazione che riusciamo a fare sono comunque fatturati regolarmente come donazione.
Chi fa il corso è poi in grado di spendersi per qualche lavoro nei dintorni?
Volendo… Se uno svolge un lavoro per l’associazione, una volta acquisita una donazione, è pagato con voucher. Certo, il volume di questi lavori è ancora limitato… Per ora sono tutte donne. Il nostro concetto è che piuttosto di stare a casa a far niente è meglio provare ad imparare un mestiere gratis.
Trovi qualche assonanza tra ciò che fa la Spei e ciò che fa “Coraggio insieme si può”?
No, perché noi siamo associati col Comune anche per servizi sociali quali la pulizia delle strade e lo svuotamento dei cestini pubblici. “Coraggio” risponde ad esigenze immediate, dal momento che abbiamo solo un corso e qualche lavoretto da offrire.
In che senso esigenze immediate?
Rispondiamo ad esigenze “di pancia” della gente, nel senso che cerchiamo di far sbarcare il lunario a chi ha proprio bisogno, ad esempio per pagare qualche bolletta. Il nostro desiderio, però, è quello di costruire qualcosa di più complesso. Rispetto alla Spei, inoltre, non abbiamo alcun tipo di background religioso.
Quando sei arrivato alla presentazione avevi già letto Credere nel cambiamento?
No, non sapevo assolutamente nulla.
Cosa ricordi di quella serata?
Mi erano piaciute le letture, le testimonianze, i filmati. La cosa che mi era rimasta oscura fu la presentazione di Stefano, tanto che gli feci delle domande in pubblico. Quello che mi interessava capire era come un’esperienza “mistica” del genere potesse adattarsi ad un mondo gretto e materiale come quello del lavoro.
Ricordi la risposta di Stefano?
La ricordo poco perché fu altrettanto vaga. Feci una domanda ben specifica: «Che reazione hanno gli imprenditori quando Spei va a presentarsi così?». Soprattutto quando va a dire che i lavoratori sono stati formati da poco, o addirittura sono ancora da formare. La risposta fu talmente vaga che non la ricordo, tanto che il motivo per cui successivamente venni in ufficio ad incontrare Stefano era di far luce su alcuni punti.
Dalla serata di presentazione cosa avevi capito?
Ho capito senz’altro che la Spei è fatta di persone coraggiose e con idee diverse. Non mi era chiaro però come fosse strutturata la ditta. E non fu chiaro neanche una volta incontrato Stefano in ufficio, insieme ad altra gente, quando sentii ripetere le stesse cose vaghe di Castellarano. Fu l’autore del libro, Giorgio Casali, che durante un aperitivo mi spiegò ciò che mi interessava sapere: la figura di Stefano – se fosse il titolare o un dipendente – i lavori di commessa per terzi, il disegno meccanico, i corsi di formazione interna. Tutte cose che dalla serata di Castellarano non si erano assolutamente capite. Né si era capito in che modo Spei aiutasse i ragazzi in difficoltà.
Ora ti è più chiaro?
Sì. Capisco gente che aveva già lavorato precedentemente come disegnatore meccanico, come quella persona [Renato Iori] che ha fatto una testimonianza a Castellarano. Non mi è però chiaro se Spei riesca ad aiutare anche le persone che vengono da esperienze completamente diverse. La nostra associazione è piena di gente che per trent’anni ha solo spostato mattonelle, ed ora non è nemmeno capace di tagliare un prato, nonostante la più buona volontà.
Alla Spei ci sono esempi di trasformazione professionale completa, partita da zero grazie all’aiuto di Stefano o di altri in ufficio: un ex imprenditore, un lattoniere, un bracciante agricolo…
Era proprio questa la mia curiosità.
La cosa che dispiace è che non si riesca ad aiutare chiunque arrivi. Primo perché non a tutti è proposto di imparare il disegno meccanico, secondo perché non tutti sono disposti a stare in ufficio per mesi a imparare la professione, rinunciando al guadagno. Sei poi riuscito a fare un colloquio con Stefano?
Non subito. La prima volta che sono venuto alla Spei è stata con mia moglie e mio figlio, durante uno dei vostri aperitivi aziendali. In quell’occasione, però, non ero riuscito a parlare con Stefano, ma solo con Giorgio, del più e del meno, soprattutto musica e cinema.
Tua moglie cosa pensa della Spei?
È rimasta molto colpita dalla presentazione del libro, anche perché lei è molto devota alla Madonna – quest’anno andrà per la terza volta a Medjugorje. È andata più “a sensazione” di me, che mi soffermavo maggiormente sull’aspetto lavorativo. Lei era interessata solo all’aspetto della fede.
Cosa hai capito dell’aspetto religioso alla Spei?
Che è fondamentale condividerlo sinceramente, non per comodo. L’importante è la sincerità d’animo, soprattutto se si spera di ottenere un ritorno dal punto di vista personale: se mi proponessi alla Spei per un lavoro dovrei crederci veramente, senza approfittare del fatto che Stefano pensi: «Questo me l’ha mandato la Madonna, diamogli un lavoro». Una volta capìta una impostazione religiosa così ben definita, la persona deve accettarla oppure no – non a tutti potrebbe star bene: da Costituzione, l’Italia è uno stato laico, e né sul lavoro né a scuola dovrebbero esserci pregiudizi di tipo religioso… Spei si propone come qualcosa di alternativo: non obbliga ad essere cattolici, ma invita ad esserlo.
Quindi, secondo te, chi non condivide l’impostazione religiosa della Spei dovrebbe andarsene?
No. Se un lavoratore non condivide l’impostazione cattolica della ditta, ma allo stesso tempo Stefano sente comunque che è venuto per un motivo, si può andare avanti. So che avete avuto anche dei musulmani…
Dopo l’aperitivo sei ritornato per un colloquio?
Sì, la settimana dopo l’aperitivo fissai un appuntamento con Stefano, sperando fosse un incontro tête-à-tête. Non fu così. Mi ritrovai chiuso in quell’ufficietto insieme ad altra gente [Fabio Arrigoni, Stefano Verucchi], con le finestre chiuse e un caldo assurdo. Come ti ho detto, ho risentito le stesse cose vaghe della presentazione di Castellarano, e non riuscii a fare le domande che volevo.
Cosa ricordi di quell’incontro?
Stefano ha fatto vedere video di testimonianze della Spei e altro. Poi ha riparlato dell’impostazione della ditta. Uno dei vostri disegnatori, presenti in ufficio, aveva chiesto delucidazioni su un lavoro che stava facendo. Stefano gli parlò, poi disse che se ci fossero stati dei problemi sarebbe andato lui dal cliente a risolvere i problemi. Quello che non capivo era come fosse possibile una cosa del genere: mettendomi nel punto di vista dell’acquirente, mi chiedevo: «Allora, chi mi fa questo lavoro? E lo farà bene?». Successivamente siamo scesi al bar che c’è sotto l’ufficio, per l’aperitivo, e lì ho avuto le risposte che cercavo in merito al lavoro da Giorgio.
Dopo quella volta non sei più venuto alla Spei?
No, perché nel mentre ho iniziato a lavorare più assiduamente con mio fratello, e non ho avuto tempo… E poi non credo che Spei possa essere un’esperienza che possa darmi qualcosa rispetto a quelle che sono le mie esigenze: continuo a condividere l’idea di fondo, ma sto facendo altro, e non mi sento di propormi con l’idea di una possibile collaborazione, perché non ho né le competenze né la possibilità di utilizzare il mio tempo per imparare il disegno meccanico… Al momento cerco di utilizzare quelle che sono le mie competenze già acquisite.
Che tipo di lavoro fai con tuo fratello?
Mio fratello è architetto e lavora essenzialmente per l’allestimento di stands alle fiere, dal progetto all’organizzazione. Lavora soprattutto con l’estero, perché gli italiani non pagano. Si è creato un bel giro, anche grazie ad un sito ben indicizzato. Io ho il compito di seguire tutte le proposte che arrivano: controllo la posta elettronica, faccio una scrematura delle domande più interessanti, rispondo al cliente e parlo con lui fino al momento in cui viene acquisito: da lì subentra mio fratello.
Credi che questo lavoro ti sia “piovuto dal cielo”?
No, anche se per un ultracinquantenne, in questo momento storico, ogni lavoro “piove dal cielo”, perché nessuno viene a cercarti. Erano alcuni anni che questo lavoro era in ballo, grazie alla mia esperienza ventennale di commerciale estero. Credo comunque che, in certi momenti, ci siano delle congiunzioni astrali o spirituali che possono aiutare, mentre prima non c’erano. Questo è giusto crederlo, altrimenti vivremmo nel nulla. Credo però che queste congiunzioni si verifichino solo se si ha qualcosa di concreto da dare.
Se dovessi dire quanto ti piace la Spei, da 1 a 5?
Gli darei un punto in più della sufficienza per l’idea e la volontà che ci sta dietro. Non mi convince fino in fondo la parte pratica.
Manderesti qualcuno alla Spei?
Manderei delle persone non per forza cattoliche, ma abbastanza curiose per affrontare una novità.
Disoccupate?
Sì, in questo momento ho a che fare solo con dei disoccupati.
E un cattolico?
Solo se ritengo che abbia la curiosità di affrontare una cosa del genere. Conosco tanti cattolici coi paraocchi che ci sbatterebbero contro. Potrei senz’altro invitarli ad una serata di presentazione.
Ultima domanda: dopo l’incontro con la Spei hai avuto dei cambiamenti, in qualunque aspetto?
Cambiato no, non è cambiato niente a livello mentale o materiale, perché sono sempre stato predisposto a credere che ci siano altre vie. Ho avuto la conferma che un altro modo di pensare è possibile. Non una rivelazione, ma una conferma. Ho capito che con gente di buona volontà e capace è possibile.