Il mercato non è solo un meccanismo efficiente di regolazione degli scambi. È soprattutto un ethos che induce cambiamenti profondi delle relazioni umane e del carattere degli uomini che vivono in società. Di qui l’insistenza del Papa sul principio di fraternità che deve trovare un posto adeguato dentro l’agire di mercato e non fuori, come vuole il “capitalismo compassionevole”. Si osservi che papa Bergoglio non si scaglia affatto contro la ricchezza di per sé né si dichiara a favore del pauperismo – come più di un commentatore frettoloso ha scritto.
Peraltro, ciò sarebbe incompatibile con l’idea cristiana di creazione e con quanto papa Giovanni XXII nel 1318, nella bolla Gloriosam Ecclesiam, già aveva chiaramente precisato. Il suo giudizio severo riguarda piuttosto i modi in cui la ricchezza viene generata e i criteri con cui essa viene distribuita tra i membri del consorzio umano – modi e criteri che un cristiano non può non sottoporre al giudizio morale.
Ciò mi porta al terzo pilastro del pensiero di papa Francesco: la tesi della “ricaduta favorevole”, di cui si parla nell’Evangelii gaudium, meglio nota come tesi “dell’effetto di sgocciolamento” ; una tesi che è efficacemente resa dall’aforisma – per primo usato, pare, dall’americano Alan Blinder – secondo cui «una marea che sale solleva tutte le barche». Per chi crede ad essa, non vi sarebbe da preoccuparsi della distribuzione di redditi e ricchezza, perché, alla fine, tutti finiranno con lo stare meglio; l’importante allora è aumentare la crescita della torta.
Ora, è bensì vero che le gocce di ricchezza che scendono verso il basso avvantaggiano anche i poveri; ma se si accoglie la prospettiva della Dottrina sociale della Chiesa, la domanda rilevante da porre è un’altra: è moralmente accettabile che chi si trova verso il fondo della gerarchia sociale, pur migliorando la propria posizione di benessere, veda aumentare la distanza che lo separa dal gruppo sociale di testa? Questo è proprio quanto è accaduto nel corso dell’ultimo trentennio, come Luigi Campiglio ha inequivocabilmente mostrato.
Invero, il Papa dimostra di capire quel che troppi osservatori e studiosi fingono di non vedere e cioè che povertà assoluta e diseguaglianza sono cose diverse. La globalizzazione ha certamente diminuito la povertà assoluta – quella di chi mette assieme meno di due dollari al giorno, in media – ma ha accresciuto in modo preoccupante i poveri relativi, ossia chi ottiene meno della metà del reddito pro capite prevalente nella comunità di appartenenza.
Ecco perché la lotta alla povertà assoluta, di certo sacrosanta, non può essere sbandierata come rimedio anche per la lotta alle diseguaglianze sociali. Il fatto è che, mentre per condurre la prima lotta, è sufficiente intervenire sui meccanismi redistributivi – ad esempio tassazione, filantropia, ecc. – se si vuole agire sulla riduzione delle diseguaglianze occorre intervenire sui meccanismi stessi di produzione della ricchezza.
E questo dà fastidio! Perché? Per la segreta (o meglio tenuta segreta) ragione che ciò verrebbe ad interferire con quello che J. Schumpeter chiamò (1912) il vero motore del capitalismo: la «distruzione creatrice». Il mercato capitalistico deve “distruggere”, cioè eliminare imprese e persone per poter crescere indefinitamente. Agli espulsi penseranno poi, se del caso, i programmi assistenzialistici. L’economia civile di mercato mai potrà accettare la darwiniana distruzione creatrice che riduce le relazioni economiche tra persone a relazioni tra cose.
Per chiudere. Un saggio recente di Marco Vitale ci informa che nel 1980 gli attivi finanziari erano pari al Pil mondiale (27 trilioni di dollari). Nel 2007, questi erano saliti a quattro volte il Pil mondiale (240 trilioni a fronte di 60 trilioni) ed, oggi, a crisi finanziaria ormai conclusa, quel totale è ancora aumentato. Nello stesso periodo, nella gran parte dei paesi i redditi da lavoro sul Pil sono scesi di oltre nove punti in media e la concentrazione della ricchezza ha raggiunto punte mai viste in precedenza.
E si potrebbe continuare a lungo. Di fronte alla violenza di questi e altri fatti, papa Francesco, senza preoccuparsi di essere tacciato di “papismo” – la posizione che identifica il cattolicesimo con il Papa – ha ritenuto e ritiene di non poter tacere, perché sa che più la Chiesa è se stessa, più conosce critiche e riceve attacchi, di ogni tipo. D’altro canto, non è forse vero che la necessitas passionis della Chiesa discende direttamente dalla necessitas passionis del suo Fondatore?
Tratto da Ricchi sempre più ricchi di Stefano Zamagni da Avvenire 1° Febbraio 2014
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