Il ‘capitano’ Francesco – e lo si era capito subito – non ha alcuna simpatia per il catenaccio o per i “pareggi mediocri”. La sua squadra deve giocare all’attacco.
La partita del Vangelo va giocata all’attacco. Calcio totale, si potrebbe dire, continuando nella metafora. “Senza paura e con entusiasmo”.
Si può vedere qui quella Chiesa in uscita che va verso le periferie, quella Chiesa dell’incontro che si fa testimone della misericordia divina, quella Chiesa ospedale da campo che cura le ferite dell’umanità, di cui il Pontefice parla fin dall’esordio del suo Pontificato.
E il linguaggio sportivo aiuta a chiarire ulteriormente ciò che Bergoglio ha nel cuore e nella mente. Un capitano e la sua squadra. Nel mondo dello sport c’è sempre un legame speciale tra queste due entità. E più il legame è stretto, più il capitano si mette a servizio della squadra, più la squadra segue le indicazioni del capitano, migliori sono i risultati.
“No all’individualismo – ha detto -. No a fare il gioco per se stessi”. Aggiungendo anche un’espressione che in Argentina riservano a quelli che non la passano mai: “Questo vuole mangiarsi il pallone”.
“Incontrarsi e stare con gli altri” e “aiutarsi a vicenda”. In sostanza far sì “che giochino tutti, non solo i più bravi”. Anzi occorre privilegiare gli svantaggiati.
Come faceva Gesù.
7 giugno 2014 – Città del Vaticano – Tratto da : «Giocare in attacco la partita del Vangelo» – Avvenire.it