Moreno è oltre i cinquanta, è sposato ed ha un figlio. Vive a Bologna e lavora dal 1990 come commerciale per grandi clienti nell’ambito dei servizi di telecomunicazione: Telecom, Wind, ed ora Fastweb. Appassionato di pesca, è impegnato da trent’anni nella politica locale e si è candidato come indipendente alle precedenti elezioni regionali, nelle liste del Centro Tabacci.
Come hai conosciuto la Spei?
Pesaresi mi chiamò due anni fa per un’esigenza aziendale, era interessato ad un collegamento in fibra ottica. Questo era il motivo del nostro incontro, alla fine iniziammo a parlare del sociale, del “donare”, del fatto che si possa fare business senza esasperare l’eccesso del business. Parlammo con molto piacere per almeno tre ore in ufficio.
Tu eri andato là per vendere delle cose.
Per rispondere a delle esigenze di infrastruttura.
Cosa serviva alla Spei un collegamento di fibra ottica?
Pesaresi aveva il progetto per un appalto con [Lamborghini, o] CNH. Aveva bisogno di un collegamento per collegare la sua sede con il cliente: trasmissione CAD e cose del genere. Con quei costi in mano, si sarebbe recato in CNH per verificare se prendeva l’appalto… Poi non so più come è andata a finire; ma al di là di questo, dopo dieci minuti, abbiamo parlato di tutt’altre cose, siamo andati su un altro fronte…
Te l’aspettavi?
Assolutamente no. Io sono fondamentalmente un commerciale dipendente, da quasi trent’anni, e il mio approccio è radicalmente diverso da quello delle partite iva: se non “vendo” non succede niente; il mio compito è seguire i clienti, capire le loro esigenze, eccetera eccetera. Con Stefano il contesto era molto diverso dal solito: a differenza di altre situazioni, dove ci si focalizza esclusivamente sul core business mio o del cliente, abbiamo parlato d’altro. Ci siamo sentiti al telefono nei giorni successivi, e mi aveva talmente incuriosito che lo veicolai verso la Fondazione ANT, che è mia cliente dai tempi della Telecom, e l’Arca di Noè, una cooperativa sociale di Bologna in cui ha lavorato per anni mio figlio.
Allora è stato lei a presentarci la Fondazione.
Con il mio lavoro vedo parecchie grandi aziende, compresi clienti che lavorano nel sociale: con questi ultimi riesco sempre a “fare di più”, anche a livello economico. In occasione di una cena organizzata da Fastweb per i nostri clienti, invitai sia Stefano che alcuni membri della Fondazione ANT [Padoan], e li misi a sedere allo stesso tavolo: poi quello che succede succede.
E la cooperativa di suo figlio?
È stata fondata più di dieci anni fa con l’aiuto della Caritas, che a Bologna è diretta da don Nicolini, un personaggio stupendo. Tiene venti trenta ragazzi con varie situazioni difficili – disabilità, ragazze madri, problemi psicologici, eccetera. Ha preso un capannone in disuso della Caritas e li fanno lavorare. Fanno semplicissimi lavori: mettere sacchetti con delle viti, imbustare oggetti, assemblare dei cavi in rame, avvitare i pedali delle biciclette, pulire le cantine…
Il lavoro gli è dato “per carità”, o sono competitivi?
È un passaparola. Sono lavori che possono fare persone con criticità… Stanno andando bene, ora hanno dieci dodici dipendenti. I ragazzi aiutati prendono un piccolo stipendio per i lavoretti che fanno; alcuni sono diventati autonomi, tenuti impegnati così da sollevare in qualche modo le loro famiglie: hanno orari, prendono l’autobus, arrivano alla cooperativa e chiedono: «Oggi cosa c’è da fare?». Si è creata una vera e propria azienda: ma, attenzione: un’azienda con persone che altri non avevano preso. Queste persone, all’interno di un sistema normale – come Fastweb – sarebbero subito state scartate. È chiaro che sono persone con problemi, e che alcuni riprendono a fare cose che non dovrebbero fare – parlo ad esempio dei tossicodipendenti – ma rappresentano delle eccezioni.
Stefano le parlò della Spei durante il vostro incontro?
Vado a memoria, sono passati almeno due anni. Mi disse che intendeva attivare la sua azienda cercando di fare del bene ai ragazzi giovani; non gli interessava il business, ma lavorare in un contesto sociale, facendo gruppo, evitando lo stress da business, che generalmente va a scapito delle relazioni umane. Questo mi colpì moltissimo: fu il primo imprenditore a dirmi queste cose; da lì entrammo nel discorso sociale.
Lo sa che siamo una srl, non una onlus, e neanche una cooperativa. Che il profitto va fatto, altrimenti non riusciamo a pagare gli stipendi. Che cosa ha pensato? È una cosa possibile quella che facciamo?
Subito ho detto: «È durissima gestire una cosa del genere in un mercato completamente competitivo». Però, d’altra parte, ho pensato che ci possono essere nel mercato delle realtà aziendali che mettono al primo posto i valori e le relazioni umane. Forse, mettendo insieme Spei ed altre realtà – come ANT, Arca di Noè, o altre nel sociale – si possono attivare piccole sinergie, anche di lavoro: «Io so usare il CAD, tu non lo sai fare: ti può servire il mio CAD nella tua attività?».
La Spei come potrebbe collaborare con l’ANT? Facciamo disegno meccanico…
Eh, con ANT non lo so… Non è semplice. Il mondo CAD è durissimo.
Se non ci fosse la crisi, Modena sarebbe un bel mercato per noi, pure contando che alla Spei lavorano disegnatori anche alle prime armi.
Mi hai fatto ricordare un’altra cosa che mi disse Stefano: il fatto che molti dei suoi dipendenti partissero da zero; ho capito perfettamente che lui ha avuto grandissime soddisfazioni da persone che, partendo da zero, sono diventate dei professionisti, al di là del rapporto titolare-dipendente. Questo è secondo me l’elemento determinante della grande capacità dell’“imprenditore Stefano Pesaresi”: la cosa mi colpì moltissimo perché entrammo subito in sintonia, e fu piacevole. Arrivarono le nove e mezzo di sera e non mi ero accorto del tempo che era passato.
Avete anche pregato? Alla Spei la preghiera è determinante. Stefano non fa ciò che fa per bontà, ma per missione. E dunque confida nella Provvidenza. È il primo a dire di non essere il miglior maestro del mondo nel disegno meccanico, anzi probabilmente non gli piace neanche disegnare. Alla Spei è determinante il fatto che attraverso la preghiera – e un invito alla conversione e all’affidamento alla Provvidenza – il miracolo sul lavoro diventa possibile. Effettivamente, molte persone partite da zero sono adesso dipendenti CNH, o Sorin Group. Non avete parlato dell’aspetto spirituale, di Maria?
Sì. Parlammo di Medjugorje, un posto dove ancora non sono stato, ma mi piacerebbe andare. Pesaresi c’era stato, e mi spiegava le stesse cose che diceva alla televisione quell’ex conduttore che si è convertito…
Paolo Brosio?
Proprio lui. Infatti abbino Brosio a quello che diceva Stefano: che quando si arriva a Medjugorje si è catapultati in una dimensione completamente diversa dallo standard della quotidianità, e si provano sensazioni che normalmente non si provano, perché si è soliti essere troppo concentrati sulle cose “spicce” quotidiane… Chiamiamolo “silenzio”: uno spazio dove “rimango io”, una cosa che provo solo quando vado a pescare, e mi metto lontano da tutti gli altri pescatori per ore ed ore; il pesce non lo prendo, ma a contatto con l’acqua e la natura mi riprendo: torno a casa carico, appagato da quelle quattro o cinque ore di isolamento nel silenzio.
Una fuga dal mondo o una fuga monastica?
Forse la necessità di uscire dalle solite routines di mercato, di business, di “avere”. Un giorno mi chiesi a cosa servivano, nel mio lavoro, la cravatta, la camicia, la scarpa, l’automobile firmata: tutte cose che non contano [un cazzo]. Contano invece la relazione e l’empatia con il prossimo, come dice Stefano, e il business diventa secondario: in questo sono d’accordo con lui, solo così si instaura una relazione con gli altri, si crea una società di ascolto, integrando tutte le persone che sono in difficoltà. Mi sto rendendo conto che basta un semplice sorriso, una stretta di mano, una battuta per superare le situazioni di criticità della nostra società. Un esempio: come dice Stefano, anch’io coi miei commerciali cerco di instaurare una relazione paritaria, senza “capi o capettini”, facendo attenzione alle piccole cose.
Al piccolo gesto, chiunque è chiamato. Ma, in una ditta come Fastweb, la tua, è possibile integrare la persona “tagliata fuori”? Ad esempio, il rumeno che non sa fare ancora niente? Forse non è neanche un problema che ci si pone.
Perché si è tutti focalizzati sul business.
Anche Fastweb, se non si focalizzasse esclusivamente sul business, potrebbe fare qualcosa per integrare una persona “scartata”, darle un piccolo spazio?
No. È troppo complesso. Abbiamo fatto un portale, sul nostro sito, per favorire le donazioni ad ANT. Ma è chiaro che non possiamo fare quello che fa una cooperativa come l’Arca di Noè; potrebbe farlo una realtà da diecimila persone: noi siamo in tremila dipendenti, e dobbiamo far quadrare i conti; il pressing è elevatissimo, lo stress pure: non c’è spazio rimasto. Si potrebbe creare un’agenzia a partita iva ma non è semplice, per niente. Il mercato delle telecomunicazioni comincia ad essere saturo: in cinque anni che sono qua, lavoro con clienti già acquisiti da tempo, non faccio più neanche una telefonata “nuova”.
10/02/2015