Don Lorenzo è diventato sacerdote nel 2008. Laureato in Ingegneria informatica, ha prestato servizio nella parrocchia modenese di Gesù Redentore fino al 2012, ed ora è parroco a Pozza. Alla Spei ha portato un paio di volte le benedizioni pasquali…
Come ha conosciuto la Spei?
Ero vicario nella parrocchia di Gesù Redentore, che Stefano frequentava regolarmente, non solo la domenica – credo abbia fatto anche alcune attività con gruppi di ragazzi, forse il catechismo. Con lui avevo buoni rapporti, e visto che la Spei era territorialmente sotto la giurisdizione della nostra parrocchia, capitò qualche volta di essere invitato in ufficio per le benedizioni pasquali – vado in tutte le abitazioni private, nelle ditte soltanto se mi chiamano. Ho colto l’occasione di fare un revival [ride, ndr], anch’io sono laureato in Ingegneria… Sono di quella brutta razza lì…
Che impressione le fece l’ambiente?
C’era chi lavorava dietro ai computer, l’ambiente dava l’idea di essere sereno e abbastanza tranquillo, anche se bisognerebbe vedere nei periodi di stress [ride]: so come funzionano gli uffici, ho lavorato quattro anni come informatico prima di diventare prete nel 2008.
Avete parlato dell’esperienza Spei?
Parlammo dell’indirizzo particolare che Stefano stava dando alla sua attività, che prevedeva momenti facoltativi ma fissi di preghiera. È una proposta insolita, credo sia l’unico posto di lavoro a fare una cosa del genere di cui abbia mai sentito parlare: nel “tempio del razionalismo” – l’informatica e l’automazione sono tutte robe molto razionali – la proposta è coraggiosa, e penso anche bella: dare spazio allo “spirito”. Quel paio di volte in cui sono andato alla Spei abbiamo pregato con la benedizione dell’attività, ma non abbiamo mai approfondito più di tanto…
La sua parrocchia non aveva nulla a che fare con la ditta?
La nostra era una parrocchia difficile, appena nata dall’unione di due vecchie realtà – c’era qualche problema di “convivenza”, vecchi dissidi che riaffioravano… E poi, credo che la linea di pensiero di Stefano e quella del parroco [don Marco] non fossero proprio concordi nel modo di vedere la fede e la spiritualità. Se sente parlare di Medjugorje, il parroco “va giù di testa”…
Perché?
Per lui sono tutte “storie”… È molto razionalista, più legato alla “fattività” che alla “spiritualità” della Chiesa, che per lui dovrebbe essere molto più impegnata nel sociale – col rischio di ridurre al niente la spiritualità… La diatriba tra loro nacque su quella questione. Il “fare”, anche secondo me, deve nascere dalla spiritualità, non viceversa: quando si incontra una conversione, pian piano deve diventare azione. Ma sarebbe sbagliato impegnarsi solo nel “fare” sperando “poi” di incontrare Dio.
Il rischio è quello di intendere la Chiesa come un organismo assistenziale…
Sì, che non è il suo compito. Nel Vangelo di ieri Gesù guarisce i malati, poi va via: quando lo cercano per nuove guarigioni dice che è venuto per annunciare il Regno di Dio, non per fare il medico – sarebbe anche potuto diventare ricco, vista la facilità dei suoi poteri [ride]. Il Suo compito è quello di portare un’“altra salvezza”, non guarire corpi che a un certo punto diventeranno polvere, passando per la morte.
Ha avuto modo di verificare “il fare” della Spei?
No, non ricordo più bene. Il tempo passa e cancella molte cose nella memoria.
La spiritualità è al centro, la gente “arriva” e non è cercata, è mandata da Maria. Ne avete mai parlato? Ad esempio, lei cosa pensa di Medjogorje?
Io sto a vedere. A volte ci si chiede se è vero o no, comunque si vedono tanti frutti: a livello di conversione personale, molti pellegrini riscoprono la fede, la spiritualità – al di là del fatto di dire “credo in Dio”, che per molti di fatto non esiste. A Medjugorje si vedono tanti cambiamenti che fanno pensare che “finto” non possa essere… E poi, c’è tutta la questione dei famosi segreti… Il tempo passa… Staremo a vedere. Ad oggi non ho mai avuto l’occasione di andarci, ma ho conosciuto tante persone – oltre a Stefano – che ci sono state e che continuano ad andarci: in tutti rinasce la voglia di pregare, di ricominciare un cammino di fede – che è poi da mantenere.
Durante i momenti di preghiera alla Spei, è Stefano che coordina. C’è il rischio, secondo lei, di diventare settari?
Sono stato alla Spei al massimo due volte, non ho mai partecipato agli incontri di preghiera, quindi non posso dare un giudizio specifico. Generalmente, bisognerebbe vedere che piega prendono questi momenti, che sono rivolti all’interno, e non aperti a chiunque voglia entrare – questo, in sé, non ha niente contro la Chiesa: se rimangono preghiere che restano dentro alla fede, va tutto bene. Nel caso della Spei, non ho sentito niente che potesse far pensare ad un allontanamento dalla Chiesa, nonostante sia un’esperienza in un certo senso “privata” – ed essendo dentro una ditta, è giusto che sia così.
Ogni tanto si sentono notizie in merito a gruppi di preghiera che, entrati in dissidio col loro vescovo, “prendono la tangente” e diventano eretici, mettendosi “fuori” dalla Chiesa…
Notizie del genere si sentono. Poco tempo fa, credo proprio in Italia, si era parlato di una presunta apparizione all’interno di un gruppo di preghiera laico il cui “leader” si era messo a sconsigliare di andare a Messa e fare i Sacramenti… Insomma, un’esperienza che degenerò. Ma non è il caso della Spei: Stefano è solo una persona che ha pensato di mettere al centro della propria ditta la spiritualità, e questo è bello. Se poi non si è “capito” col parroco del luogo non vuol dire che sia “fuori” dalla Chiesa. E poi non credo che si sia messo a dire “Non andate a Messa”…
Assolutamente no… Anzi, invita spesso a fare i Sacramenti. Ad ogni modo, secondo lei, potrebbe far bene alla Spei la presenza di un sacerdote?
Un sacerdote potrebbe essere quasi una “garanzia”, un aiuto a non prendere derive troppo personali. Può capitare che un gruppo, condividendo le stesse cose e lo stesso stile, parta in buonafede ma arrivi ad allontanarsi leggermente dal pensiero della Chiesa, assolutizzando il proprio pensiero, o magari prendendo per “vere” cose che non lo sono – quando si è tutti “concordi” in uno stile può essere difficile accorgersi dei propri errori. Quindi, sarebbe auspicabile che un sacerdote aiutasse “da fuori” ad evitare questa possibilità: nonostante – e purtroppo – la Chiesa faccia fatica, a volte, a seguire tutti i gruppi di preghiera per mancanza di tempo o di sacerdoti, verificare l’ortodossia è un suo compito – e non per una sorta di sfiducia aprioristica, ma proprio per non lasciare nell’autoreferenzialità, per guidare.
04/09/2014