Marta ha vent’anni e frequenta i gruppi universitari di Comunione e Liberazione. Ama la politica e la legge, l’ordine delle cose. È al secondo anno di Giurisprudenza, e crede nella possibilità di costruire una società più bella, di vivere in una società più giusta. Durante gli anni del liceo conobbe Stefano e la Spei…
Come sei arrivata alla Spei?
Tre anni fa, ero in terza superiore, avevo bisogno di ripetizioni di matematica. Conoscevo Stefano perché cantavamo assieme nel coro di Modena, c’era anche mio padre [Maurizio]. Fu proprio mio padre a chiedergli se avesse potuto darmi ripetizioni, in qualità di ingegnere. Andai a lezione per un anno nel suo ufficio, prima delle verifiche, gratis.
Hai visto altri dipendenti?
Quasi mai, facevamo lezione nell’ufficio quando gli altri non c’erano. Solo una volta vidi i suoi colleghi, erano nello studio di Stefano per un momento di preghiera. Recitavano un rosario, era un giovedì. Mi chiesero se volevo rimanere con loro ma avevo un impegno, e dovetti andar via. Mi fece strano vedere persone “che non avresti detto” pregassero…
In che senso?
C’erano dei ragazzi, uno con dei piercing… Gente strana [ride, ndr]. Di solito si separa la preghiera dalla vita lavorativa. Era strano anche il fatto che si pregasse in un luogo di lavoro.
Durante le lezioni Stefano ti parlava solo di matematica?
No, a volte parlavamo d’altro, prima o durante la lezione. Mi chiedeva cosa facevamo nel Movimento – sono di Comunione e Liberazione, nel gruppo universitario – e quando ci trovavamo, della Scuola di Comunità, delle nostre vacanze.
Cosa fate alla Scuola di Comunità?
La cosa più peculiare è la lettura dei testi di don Luigi Giussani, il fondatore della nostra comunità. Questi brani ci aiutano a capire meglio cosa succede nella vita di tutti i giorni: confrontiamo la sua esperienza con la nostra, verifichiamo se il nostro cristianesimo è vissuto o no.
C’è qualcuno che dirige questi incontri?
Sì, il capo del movimento è un adulto, mentre nel gruppo universitario c’è un altro ragazzo, più grande, che è il responsabile. CL è un movimento di tutto il mondo che segue il papa, quindi seguiamo anche il papa.
Tornando alla Spei, Stefano ti raccontava qualcosa?
Mi raccontava di Medjugorje, oppure delle storie dei suoi dipendenti, come li aveva incontrati. Avrebbe potuto assumere dei professionisti, invece prendeva persone cui dover insegnare tutto.
Secondo te perché lo fa?
Stefano ha la tendenza a vedere tutto come “segno”, come “dato”: è più forte di lui accettare quelle persone. È qualcosa di rischioso, ma diceva che chi assumeva aveva voglia di lavorare, e faceva progressi inaspettati. Assumere uno straniero con problemi di lingua è molto rischioso, ma umanamente ci si guadagna. Poca gente fa così.
Umanamente in che senso?
Per il fatto di guardare tutte le persone che incontra come “mandate”. Sicuramente ci guadagna in termini di rapporti con le persone.
Che impressione ti fece l’ufficio Spei la prima volta?
Notai un gran numero di madonnine, pensai che Stefano non aveva paura di mostrare quello in cui credeva. Anche se forse erano un po’ troppe… [ride]
Secondo te perché ne ha così tante?
Credo che le abbia messe per sentirsi a casa nel proprio luogo di lavoro, come quando uno ha una famiglia e ricopre lo studio con le immagini dei figli… È il suo modo di sentirsi a casa: potrà sembrare un po’ eccessivo, ma ognuno ha i propri modi.
Vi siete mai visti fuori dalla Spei, oltre alle prove del coro?
Una volta lo invitai a casa della responsabile CL dei ragazzi delle superiori [Annachiara Magnanini]. Era un pranzo con i miei amici, Stefano venne e parlò a tutti di Medjogorje. L’avevo invitato perché un’altra volta, ricordo benissimo, mi fece fare un giro per tutta Modena dicendo che saremmo andati “alla ricerca di Dio”: fu un’esperienza strana e un po’ pesante, un po’ forzata, così volli presentarlo al mio gruppo. Quel giorno, andammo in giro a piedi almeno due ore, dalla zona di Gesù Redentore fino al centro storico. Era il giorno dell’ultima lezione di matematica. Per le strade, Stefano diceva continuamente “questo è un segno mandato da Dio”…
Della serie “la nuvola che scopre il sole” è un segno di Dio?
Anche [ride], ne vedeva continuamente, da per tutto. Ricordo che andammo a trovare un mio amico e lui ci offrì da mangiare. Poi in un ostello – non so perché decise di suonare quel campanello, c’era qualcosa che lo aveva incuriosito, forse una statuetta della Madonna: salimmo e parlammo con una ragazza, ci parlò del suo lavoro e ci mostrò tutto l’ostello.
E Stefano non ha fatto con lei un po’ d’apostolato?
Non ricordo [sorride]… Forse le ha lasciato un’immagine…
Cosa significava andare “alla ricerca di Dio”?
Sinceramente non l’ho capito [ride, ndr]. È la sua forma, il suo modo di credere. Ognuno ha i propri carismi. Ma la sostanza è la stessa, abbiamo incontrato la stessa cosa.
E cos’è questa cosa?
È l’incontro cristiano, che a lui permette di avere lo sguardo che ha verso i suoi dipendenti…
Ti ha cambiato l’incontro con Stefano?
Ero rimasta un po’ appesantita da tutto quello che diceva e faceva, non capivo. Il giro per Modena, ad esempio, mi lasciò un po’ “sconcertata”, era proprio un modo diverso di vivere. Decisi di andare oltre quella prima impressione, di vivere la vita del Movimento ancora di più per verificare, al di là della forma, cosa io e Stefano stavamo seguendo. Avevo paura che la sua forma fosse una “montatura”, un’“aggiunta”. Parlai con la mia responsabile, mi disse che al di là dei suoi modi “particolari”, non potevo negare che lui avesse incontrato la stessa cosa che avevo incontrato io. Stefano aveva questo modo, io un altro. Il mio modo di cercare Dio è diverso dal suo: per me è fondamentale dire le lodi alla mattina (parlano sempre di quello che sto vivendo nel presente), pregare la sera, impegnarmi in quello che faccio senza dover “aggiungere” altro – il fatto di impegnarsi è già un obbedire a quello che c’è. Avevo capito che il modo di Stefano non è una montatura, e va benissimo: è il modo migliore per lui.
Eri una ragazzina. Ti era venuto il dubbio che la vita cristiana fosse solo quella?
Sì. Ma arrivai a capire che il suo era uno dei tanti modi. Come dicevo, conoscere il suo modo è stato un motivo per andare più a fondo in ciò che stavo vivendo – la vita del Movimento. Lo scopo della vita è amare ed essere amati, in tutto quello che faccio nel quotidiano sento la “promessa di Dio”.
Anche Stefano fa vedere che il Cristianesimo è una “cosa del presente”, dell’oggi.
Sì, la “promessa nel presente” è un aspetto fondamentale del Cristianesimo, l’abbiamo in comune… Così come quella “tensione” ad emulare Gesù Cristo – è questo uno dei messaggi di don Giussani, una delle sue “riscoperte”.
Hai rivisto Stefano negli ultimi tempi?
Non sono più dentro al coro da alcuni anni… L’ho risentito qualche giorno fa, mi ha detto che sarei stata intervistata da un poeta… [ride].
19/09/2014