La battaglia per il pane

«Sono stato colpito dall’accoglienza della gente – racconta -. Questa nota di benevolenza mi ha molto incoraggiato. Ne avevo bisogno.

Sono arrivato qui lasciando un’opera, la Fraternità San Carlo, cui avevo dedicato ventisette anni della mia vita, 120 giovani che ho portato al sacerdozio, quasi 40 seminaristi. Ho provato scoramento quando mi è stato chiesto dal Papa di assumere questo incarico. Subito il primo giorno la gente forse ha sentito questo e mi ha rincuorato». 

Cos’altro l’ha colpita di Reggio? 

«La concretezza e la passione per il lavoro. Ho trovato persone che amano vedere in poco tempo i problemi e prendere decisioni, che non si lamentano delle difficoltà ma vogliono andare avanti. Mi ha molto colpito un imprenditore che mi ha detto: “Ho venduto tutto, anche la mia casa. Sentivo di doverlo fare, per poter lasciare ai miei figli un’impresa che adesso è molto in difficoltà”.

Penso che questa passione per il lavoro e questa accoglienza dell’altro siano frutti buoni delle due tradizioni, cattolica e socialista-comunista. Due grandi appartenenze. Montanelli le definiva le due chiese: mi sembra una definizione azzeccata». 

Che qui però si sono scontrate, anche con violenza.

«È vero. La Chiesa ha avuto nove sacerdoti uccisi tra il 1944 e il 1946. Forse non tutte le ferite sono rimarginate. Penso che bisogna imparare non a dimenticare, ma a perdonare e a camminare insieme. Del resto, le due “chiese” si sono confrontate e forse un po’ anche copiate». 

Cosa intende dire?

«Penso che dal cattolicesimo sia venuto al comunismo un linguaggio, almeno qui, che oggi sento profondamente cristiano: l’attenzione all’altro, la donazione, il volontariato. Non dico che non faccia parte anche della storia socialista, ma ha trovato nella storia cattolica un forte bacino di testimonianza. E del mondo comunista faceva parte il senso di appartenenza, la battaglia per il pane, la salvezza attesa dal lavoro. Occorre che le identità si incontrino ma non si annacquino reciprocamente. Oggi queste identità spesso sono molto diluite, sono venute meno le appartenenze forti degli anni ’50». 

Della sua diocesi fa parte Brescello, il paese di don Camillo e Peppone. 

«Ho imparato molto da Guareschi. Don Camillo e Peppone convivono nella stessa persona. Sono come due mondi in uno. Al di là di espressioni colorite dell’uno e dell’altro, si sono profondamente rispettate e credo anche amati. C’è un’altra cosa poi che mi ha impressionato». 

Quale? 

«La cultura di questa terra, la presenza enorme della storia e dell’arte. Penso per esempio a Canossa e a Matilde. Una donna che nell’XI secolo, per il suo legame con Papa Gregorio VII, riesce a capovolgere la storia, a far sì che si affermi la libertà della Chiesa nell’elezione dei vescovi. Matilde ha segnato questo territorio, ha costruito novanta chiese, chiamate chiese matildiche. Quelle che rimangono sono meravigliose, nella loro assoluta semplicità». 

Molte chiese oggi però sono chiuse. 

«Purtroppo è così. Qui ce ne sono 300 aperte, e altrettante chiuse. La diocesi nel ‘700 aveva duemila preti. Nell’800 erano mille. Negli anni 60 erano 500. Oggi sono 290, e quasi uno su tre ha tra i 75 e i cent’anni. Di necessità la diocesi ha dovuto lasciare chiuse alcune chiese di montagna e di collina. Ma per il vescovo è un grande dolore il pensiero che intere comunità potranno accedere con più difficoltà alla vita della Chiesa e a quel luogo di socializzazione, di incontro, di speranza che una chiesa rimane per molta gente. 

Lei si è posto il problema della solitudine dei sacerdoti. 

«Sì, sono nati luoghi in cui tre o quattro preti vivendo insieme si fanno carico di sette o otto parrocchie. Ma la vita in comune non si improvvisa. Educare alla vita comune è un compito che ci attende nell’immediato futuro». 

Non crede che si possa mettere in discussione il celibato dei preti? 

«Considero il celibato estremamente conveniente alla vita sacerdotale. Perché libera la persona da responsabilità serie e profonde come quelle di una famiglia e le consente di avere una vita come quella di Gesù: l’unica preoccupazione diventa quella per il suo popolo». 

Ma si può vivere una vita affettivamente vera senza una donna? 

«Se celibato volesse dire tagliare i ponti con gli altri, uomini e donne, sarebbe certo una scelta negativa. Ma celibato non significa quello. Non è vita affettiva ridotta. La rinuncia al rapporto matrimoniale apre a una dilatazione dell’amore e della paternità alle persone che ci sono affidate. La figura del padre è molto in crisi nella nostra società. La riscoperta dell’importanza della figura femminile è una grande conquista del nostro tempo, in linea con quel che Gesù ha portato nel mondo; ma si è parlato poco dell’uomo e del padre.

Quando ero vicerettore all’Istituto famiglia e matrimonio “Giovanni Paolo II”, venivano da me molti padri separati e mi chiedevano: “Dica al Papa che parli anche di noi”. La figura paterna deve essere riscoperta: una figura che sia solida, convincente, non perfetta; non angeli, uomini che sanno di poter sbagliare ma prendono per mano i loro figli e li portano a incontrare le frontiere della vita». 

La Chiesa ha fatto tutto quel che doveva fare contro i preti pedofili?

«Penso che molto rimanga ancora da fare, non tanto per perseguire, quanto per educare a una vera maturità sessuale, e per discernere nel cammino verso la vocazione persone che abbiano un’autentica maturità umana. Occorre saper dire un maggior numero di no. Meglio pochi preti, non dico perfetti, ma validi e attrattivi per la loro umanità, che molti preti che poi portano il peso dei propri errori e non possono essere padri. Una riforma seria della vita dei seminari, dei sacerdoti e dei vescovi è una delle urgenze più grandi della Chiesa oggi». 

Esiste in Italia un pregiudizio anticattolico o comunque contro le gerarchie ecclesiastiche? 

«Forse non tutti sanno che un vescovo prende 1.200 euro al mese. Che la Chiesa paga l’Imu, tranne che sugli edifici destinati alla formazione o alla cura delle persone; e di cura in questo momento c’è molto bisogno. Al primo piano del vescovado distribuiamo ogni giorno 450 pasti gratuiti ai poveri». 

Prodi si definì «cattolico adulto» e rifiutò di seguire l’indicazione di Ruini (due reggiani n.d.r.): astenersi al referendum sulla procreazione assistita. 

«Ho incontrato Prodi la notte di Natale, sono stato contento di vederlo qui nella nostra Cattedrale con la moglie. La sua persona è espressione dell’anima sociale che c’è dentro il cristianesimo. Credo che essere cattolici adulti voglia dire essere cattolici convinti, non in contrapposizione all’autorità della Chiesa, ma avendo interiorizzato quello che l’autorità dice». 

Cosa ha provato vedendo le immagini del funerale di Gallinari? 

«Ho vissuto gli anni 70. Avevo il mio ufficio di presidente dell’azione cattolica giovanile vicino alla Statale di Milano, e ho passato mesi tra i lacrimogeni. Ricordo i bollettini di guerra, i morti sparati e ammazzati. Più avanti, ricordo i giorni di prigionia di Moro. L’Italia ha conosciuto la più lunga fase di terrorismo di qualunque paese europeo, tranne l’Irlanda del Nord. Vedendo le immagini del funerale di Gallinari ho rivissuto quei tempi e mi sono chiesto: è possibile che tutto ciò che è accaduto in questi quarant’anni non abbia insegnato nulla? Ci sono le stesse ragioni di odio di allora? E dire che dovrebbe essere chiara l’infecondità, anche dal punto di vista dell’aiuto agli ultimi, che quelle azioni hanno rappresentato». 

Lei viene da Cl. Non pensa che il movimento sia in grave crisi? 

«No. In Cl vi è una significativa realtà di persone dedite all’educazione alla fede, alle scuole, all’accoglienza, alla carità. Questo è un segno di vitalità. Non dobbiamo dimenticare che sempre il passaggio oltre la morte di un fondatore è un passaggio difficile. Occorre riscoprire tutto il carisma di un fondatore; non semplicemente ripeterlo, ma ritrovarlo.

Certo don Giussani è stato un genio della fede, tra l’altro per due ragioni. Ha rimesso al centro dell’attenzione ecclesiale il cristianesimo come avvenimento di libertà, cioè il fattore personale del cristianesimo in un momento – gli anni ’50 – in cui sembrava prevalere l’aspetto organizzativo e associativo. Lui ha scommesso sempre sulla libertà delle persone.

Nello stesso tempo ha indicato la Chiesa e le sue comunità come il luogo in cui la fede doveva diventare vita, incarnarsi giorno per giorno. Il movimento deve riscoprire continuamente come dire queste due grandi verità, incarnazione e comunione, in un tempo che è cambiato rispetto agli anni 50». 

La Chiesa darà una mano a Monti?

«Il compito della Chiesa è di annunciare Cristo, come ha detto il cardinal Bagnasco. Penso che la Chiesa debba indicare una prospettiva ideale e di lavoro chiara e sostenere le persone che condividono le sue preoccupazioni fondamentali. Non per la difesa di un potere interno, ma per ragioni che riguardano il bene dell’uomo e della società». 

Tratto da “A Reggio Emilia la «rossa» arriva il vero don Camillo –  di Aldo Cazzullo

Massimo Camisasca nominato vescovo della città più di sinistra d’Italia, è l’autore di una storia di Cl.