Alessio è un perito in telecomunicazioni, trentadue anni, una convivente e un bimbo piccolo. Modenese dalla nascita, è socio in una ditta di elettricisti. Lavora anche una volta a settimana come insegnante al carcere di Sant’Anna. Appassionato di materie scientifiche, ha frequentato corsi universitari di Fisica, senza conseguire la laurea. Persona molto seria e ironica, alla Spei è stato poco più di un anno, proprio nel periodo in cui qualcosa aveva cominciato a cambiare.
Come e quando sei arrivato alla Spei?
Sono arrivato nel 2007, al tempo eravamo solo tre in ufficio: io, Stefano e [Valentina]. Col tempo arrivarono [Gabriele], [Aziz] e sua moglie [Souad]. Conobbi Stefano tramite un amico comune, Massimo, della parrocchia che frequentavamo entrambi – poi ho smesso di andarci. Feci il colloquio proprio davanti alla chiesa di Maria Immacolata, che poi venne demolita. Sono rimasto alla Spei poco più di un anno.
Stefano era in cerca di dipendenti?
A quel tempo aveva bisogno di assumere qualcuno… Non ricordo se avevo detto a Massimo che volevo cambiare quello che era il mio primo lavoro – ero operaio in una ditta di pompe idrauliche – comunque, dopo il primo incontro, ci fu un interessamento concreto di Stefano nei miei confronti, facemmo presto a concludere per l’assunzione.
Un colloquio in ufficio l’hai fatto?
Non mi ricordo… Non ricordo assolutamente.
Che ruolo avevi alla Spei?
Facevo modellazione con PRO-E per alcune ditte esterne [Italtecno, CNH], successivamente andai a fare un po’ di validazioni in una ditta di Mirandola [Sorin].
Hai lavorato nei primissimi tempi del “nuovo corso” Spei, i tempi in cui qualcosa stava cambiando nelle dinamiche della ditta. Aziz è il primo arrivato in questa “nuova Spei”…
Stefano mi aveva già fatto il discorso della “gente che arriva”… Può darsi che Aziz sia stato il primo, ma un discorso simile l’aveva fatto anche nei miei confronti: io non avevo una formazione di modellazione 3D, conoscevo il sistema CAD solo vagamente, non era una delle mie specializzazioni. Prima di assumermi Stefano disse che non era un problema, mi avrebbe spiegato tutto lui, avremmo fatto un percorso insieme: come insegnante è molto bravo, imparai bene a lavorare.
Stefano parlava della sua conversione con te e Valentina?
Sì sì, sia con noi che nelle ditte in cui lavoravamo. Voleva fare apostolato e le preghiere a fine turno.
Tu eri credente, andavi in Chiesa?
Andavo in chiesa, ma sono sempre stato un po’ borderline. Fondamentalmente sono sempre stato “laico”, poco praticante sia da piccolo sia una volta cresciuto: m’ero riavvicinato per merito di qualche persona… Ho fatto l’animatore e il catechista in parrocchia, perché c’erano dei “ragazzi di strada” cui bisognava tener dietro – ero la persona indicata per formazione e per carattere. Ma non sono mai stato uno che faceva apostolato, anzi, ritenevo sbagliato il fatto di farlo all’interno di un’azienda: [fede e lavoro] sono due cose che non vanno confuse. Per questo dico di essere laico. Proprio in quel periodo Stefano aveva iniziato con me e Valentina la proposta della preghiera fissa in ufficio.
Come è finita la tua esperienza alla Spei?
Ho interrotto un po’ bruscamente: non mi interessava il lavoro che stavo facendo a Mirandola, non mi piaceva andare lì, e poi avevo fatto due incidenti stradali – avevo ragione in entrambi i casi, ma ho perso due macchine – le assicurazioni non pagano mai tutto. Il giorno dopo il secondo incidente diedi le dimissioni a Stefano, e per fortuna ho trovato un altro lavoro in poco tempo. Avevo già intenzione di cambiare, col fatto dell’incidente mi decisi definitivamente.
Fu un incidente grosso?
Abbastanza. Ero in macchina con un dipendente della Sorin e a un incrocio una vettura non rispettò lo stop. Fortuna che ebbi i riflessi per frenare, in qualche modo riuscii ad attutire lo schianto ed evitare il peggio, ma il mio collega si fece del male – ha patito per più di un anno.
Sei rimasto molto colpito da quell’incidente, tanto che ti sei dimesso in un solo giorno…
Non è stato solo per quello: m’ero stancato di lavorare tutto il giorno in un ufficio davanti ad un computer, di andare ogni giorno a Mirandola, e anche di perdere automobili. Stefano inoltre non aveva prospettive di lavoro, si muoveva solo con l’idea che “tutto deve arrivare”, che la Provvidenza manda le cose, compreso il lavoro, e quindi non ne cercava. Infine l’ambiente non era più consono a me ed a quello che pensavo. È stata comunque un’esperienza positiva.
Adesso abbiamo il settore marketing, abbiamo gente che telefona ogni giorno.
Eravamo solo in tre, quattro quando è arrivato Aziz. Dopo un mese sono andato via.
Sei sempre stato pagato?
Sì, anche se non mi è stato pagato il “patto di non concorrenza”. Ho scritto a Stefano ma non mi ha risposto. Siccome ero stato formato, mi venne chiesto di firmare un patto in cui mi impegnavo per tre anni a non lavorare per concorrenti della ditta. Siccome avevo rispettato il patto, mi spettavano qualcosa come 1000-1500 euro l’anno, e non li ho mai ricevuti.
Non gli hai fatto causa?
No, li ho chiesti a lui. Se è una persona onesta me li darà.
Cosa pensavate, tu e Valentina, della preghiera in ufficio?
Per la preghiera… Pensavo a prescindere che Stefano fosse un invasato. Il giorno del colloquio fuori dalla chiesa – fu una cosa velocissima – mi disse che pensava fosse stato provvidenziale il fatto che qualcuno ci avesse presentato – ma lo disse come io posso dirlo per strada per qualunque cosa che capita, non aveva citato né Medjugorje né niente di simile. Poco tempo dopo, gradualmente – non so se fosse una sua strategia oppure il suo percorso personale – vennero fuori altre cose. Ho visto Stefano insistere sempre di più nel suo riferire tutto quel che capitava a “segnali provvidenziali”… Interpretava qualunque cosa che accadeva in un’ottica personale.
A te dava fastidio?
A me dava fastidio “il giusto”. Sono una persona abbastanza salda, per cui ritenevo sbagliato, in un’azienda, perdersi in queste cose. Rispondevo a Stefano con ironia, leggerezza, e qualche battuta: lui ha preso questa strada… Personalmente andavamo d’accordo – sono una persona che va d’accordo con tutti, anche coi carcerati [ride, ndr] – e Stefano era competente sia come insegnante che come lavoratore.
Eravate obbligati a fare le preghiere in ufficio? Come funzionavano?
No no, non eravamo obbligati. Una volta a settimana, il giovedì, nel suo stanzino, dicevamo un rosario – una cosa veloce, ma non era pertinente: l’azienda deve pensare a fare l’azienda.
“Credere nel cambiamento” era già il motto della Spei?
Non lo so. Non era citato. Forse è stato promosso da Stefano successivamente.
Adesso, coi dipendenti, è molto propagandato il fatto del “cambiamento personale”, che sia trovare lavoro o qualunque altra cosa. Ricordi anche su di te un discorso del genere?
No, non ricordo nulla del genere.
In quell’anno e mezzo di lavoro è cambiato qualcosa in te? Nella tua vita?
Ho cambiato le macchine [sorride].
Ora non credi più. La Spei ti ha allontanato dalla fede?
No, è stata una cosa maturata nel tempo… Sono una mente abbastanza scientifica: si prova, si riprova, poi si vede se arriva un risultato…
Come giudichi in toto la tua esperienza alla Spei?
È stata un’esperienza. E come ogni esperienza che ho fatto mi ha insegnato qualcosa. Alla Spei ho imparato che il lavoro comprende un insieme di cose, che per lavorare bene non conta solo il “tipo di lavoro”, ma anche i colleghi, l’ambiente. Lì ho conosciuto un mondo diverso…
Che non ti andava bene…
Diciamo destabilizzante per un’azienda in generale – ora la vedo anche dal punto di vista dell’imprenditore. Ritengo che un’azienda debba lavorare, perseguire un obiettivo che non sia “economico” ma comunque “materiale”: l’offerta di un servizio o di un prodotto. Gli sforzi devono essere concentrati su quello. È importante anche l’aspetto del team building, ma la formazione del gruppo va fatta con le pedine che si hanno in mano, non cercando di cambiarle – nessuna squadra di “leggerini” può giocare a rugby, non si vincerebbe neanche una partita.
E se i dipendenti Spei fossero tutti convinti dell’impostazione che ha la loro ditta, la stessa impostazione potrebbe essere un valore aggiunto?
Sì, se tutti ne fossero convinti. Nella realtà però si rischierebbe di escludere chi non è convinto: la ditta scadrebbe nell’offerta del prodotto, perdendo o demotivando quei dipendenti che, pur bravi, non sono d’accordo. Come dicevo, questo è stato uno dei motivi per cui ho lasciato la Spei: lo vedevo come una delle cause della “decadenza” dell’azienda. Inoltre, per mancanza di prospettive di lavoro, rischiavo di trovarmi a spasso da un momento all’altro. Per pregare ci sono altre forme giuridiche diverse dalle srl, come le associazioni culturali o le onlus.
15/10/2014