Nel cielo buio della crisi brilla ancora qualche stella, come quella di Marco Bartoletti, imprenditore del settore moda, partito con due operai e due vecchi torni ed arrivato in dieci anni a presiedere la BB Spa, un gruppo con 250 dipendenti in quel di Calenzano (Fi) che collabora con le principali case di moda del mondo.
Una storia, quella dell’ex ragioniere allergico all’originario mestiere di assicuratore (perché “lì chi ha senso etico non fa successo”), che in questa Italia in profonda recessione infonde una buona dose di speranza.
Anche se lui si schermisce e dice: “Non esageriamo, quando il livello è quello attuale, basta essere normali per fare notizia”. Ma, a dire il vero, non sono tanti quelli capaci di aumentare il fatturato dell’11mila per cento in un decennio, sfondare a livello internazionale e dare tanti posti di lavoro. Non crede Bartoletti?
Prima di rispondere si concede una risata cristallina. “Il numero è vero – fa notare – Ma conta di più che la crescita è stata molto solida. Spesso, nonostante il mio settore sia particolarmente ricco, si tende a crescere in fatturato e utili e si finisce col restare senza liquidità. La mia scelta invece è stata quella del contadino, pronto a utilizzare le risorse accumulate per una fase successiva.Intendere l’azienda come una mucca da mungere significa ritrovarsi poco capitalizzati ed esposti ai rischi del credito bancario”.
Non dica che non ha mai chiesto prestiti o agevolazioni. “Non ho mai chiesto agevolativi allo Stato e alla Ue perché ciò condiziona l’azienda che deve ogni volta spostare l’orientamento nella direzione richiesta per la concessione del finanziamento”.
La sua storia è incredibile, ce la può raccontare in poche battute?
“Dal ’90 al 2000 ho lavorato per delle case automobilistiche con la mia aziendina di due operai, e quando mi ha chiamato una grande maison per produrre con cura artigianale ma in grande quantità oggetti per la moda, non mi sono fatto sfuggire l’occasione. Ho agito con umiltà ma ho fornito molte soluzioni, ed è stata la svolta, in un settore dove, se sbagli, non perdonano”.
Decantano il rapporto che lei ha con i suoi dipendenti, considerati una sorta di famiglia eterogenea ma compatta. “Sono i miei ragazzi, per uno come me, predisposto naturalmente ai rapporti umani, è normale. Il fatto poi di essere partito da zero, e di essere cresciuto insieme a loro, me li fa sentire effettivamente come famigliari”.
Come li assume? “Ancora adesso faccio io il primo colloquio ai candidati e non chiedo mai il titolo di studio o le capacità, cerco di basarmi sull’impressione a pelle, di valutare la volontà di sacrificarsi e voler lavorare in gruppo. Una volta entrati nella mia azienda, comunque, i loro problemi diventano i miei”.
Ha colpito molto che lei non abbia nessun tentennamento nell’assumere persone malate. “Le persone con difficoltà importanti sono una ricchezza e, in questo mondo della moda, dove girano prodotti per ricchi, ritengo molto importante la sensibilità verso chi è meno fortunato. Io mi sento bene a non dimenticarlo, e il lavoro non ne risente assolutamente, anzi, se ne avvantaggiano creatività e passione. Avere un ragazzo con problemi accanto a uno normodottato è un valore che dà più soddisfazione del fatturato. Ci riporta con i piedi per terra e ci dà insegnamenti fantastici, per questo mi sorprende che questa nostra caratteristica stia avendo una eco incredibile”.
C’è una storia in particolare, rimasta impressa nella sua mente? “Non mi piace mettere in risalto che io assumo malati, turchi o altro, perché per me è normale, ma storie ce ne sono tantissime. L’ultima è quella di una ragazza venuta a dirmi, nel giorno del colloqui di selezione, che poco prima le avevano diagnosticato un tumore. Piangendo mi ha rivelato di essersi presentata giusto per educazione e ringraziandomi mi ha salutato affermando che capiva come nelle sue condizioni il posto di lavoro non poteva certo averlo. Le ho intimato di risedersi, le ho detto di fare ciò che doveva e dopo di tornare qui, perché qui c’è un posto per lei”.
Perché ha questa sensibilità verso chi ha una malattia? “La malattia crea disabilità, ma la mancanza di lavoro crea mancanza di dignità. Avere un’attività aiuta chi è malato, ed è bello comprenderlo, perché prima di essere imprenditori siamo persone. Per questo ho organizzato anche dei convegni, come quello sulla distrofia di Duchenne. Sono venuti nella semisconosciuta Calenzano 30 scienziati ed è stata messa a punto una cura, sia pure non definitiva. Si potrebbe fare di più, ma faccio quel che posso per restituire qualcosa di quanto ho avuto e arginare la disperazione che vedo in giro”.
In questo periodo di recessione cosa dovrebbe fare lo Stato per l’impresa? “Più che altro dovremmo chiederci cosa potremmo fare noi. Io ho avuto centomila occasioni per delocalizzare, ma non l’ho mai fatto. Parliamo tanto di Made in Italy poi c’è chi compra prodotti dalla Cina e ci mette un marchio ritenendo stupido il cliente. Ma è una cretinata perché ciò ci snatura e ci fa dimenticare ciò che siamo bravi a fare. Io dico ‘fate ciò che sapete fare’, perché competenza e professionalità sono fondamentali”.
Come si combatte la concorrenza dei cinesi basata su prezzi impossibili da battere? “Prato era la patria del tessile, oggi è in mano ai cinesi che, si badi, hanno diritto ad essere sul mercato. Ma gli imprenditori locali hanno sbagliato a cercare di inseguirli sul loro terreno. Io invece ho preferito aumentare i prezzi e internalizzare, facendo quello che i cinesi o altri non sanno fare, anche se all’inizio mi prendevano in giro: per questo ho vinto”.
Le dà fastidio produrre oggetti che costano più di quanto un operaio guadagnerà in tutta la vita? “Sarei ipocrita a demonizzare la ricchezza, l’errore sta nel non rendere partecipi gli altri del bene che essa può dare. Una borsa può costare centinaia di migliaia di euro ma la sua produzione può permettere a un’azienda di crescere e creare posti di lavoro”.
Oggi si parla molto di mentoring, cosa consiglierebbe lei a un giovane che vuole iniziare a fare l’imprenditore? “Gli direi di cercarsi un nonno che lo adotti, credo infatti che la nostra generazione di 50enni abbia fallito”.
Perché? “Non è stata in grado di trasferire ai figli ciò che gli era stato trasferito dai padri, e c’è tutta una classe dirigente priva di valori che dovrebbe andare a casa lasciando spazio ai giovani che, soprattutto in politica, sono meno marci. Nel lavoro però è diverso. Io assumo anche anziani perché possiedono un patrimonio di conoscenze da tramandare. La Sardegna per esempio è una zona magica sotto questo punto di vista, vi ho vissuto per qualche tempo imparando dalle mamme di Carbonia, Cagliari o di Elmas cose preziose che mi sono servite e mi hanno aiutato nella vita e nel lavoro”.
Bello, tutta la sua vita è bella. Ma cosa può desiderare ancora un imprenditore, anzi un uomo, come lei? “Di realizzare l’ultimo progetto: quello di creare una azienda con solo persone malate. Saranno soci, la gestiranno e vi opereranno. Una cosa bellissima, un modo di dare spazio e motivazioni a chi è in difficoltà e merita di sentirsi particolarmente gratificato”.
21 marzo 2013 – Tiscali.it – La storia di Marco Bartoletti: da operaio a un’azienda di 250 persone nella moda. Ora assume malati ed anziani