ORA ET LABORA

[Giovanni] è consulente per una agenzia di somministrazione del lavoro che opera nel modenese. Ha quarant’anni ed è laureato in Economia e commercio. La sua carriera è cominciata in una multinazionale del settore. Alfista convinto, è sposato ed ha due figli.

Come hai conosciuto la Spei?

Ho conosciuto la Spei tramite un libro regalatomi gentilmente da [Paolo Rossi Barattini]. Fu un regalo di Natale inaspettato. Mi disse di leggerlo perché era interessante.

Paolo è un tuo amico?

È un amico recente. Prima di Natale andai nella sua azienda agricola per comprare delle strenne da regalare ai miei clienti. Ci trovammo in sintonia, capendoci al volo su alcune cose.

Hai letto subito il libro?

Sì. La sera stessa, o il giorno dopo, molto velocemente. Ero curioso perché il progetto di cui si parla tra le pagine è molto interessante, qualcosa su cui stavo già ragionando da tempo e sulla quale, in quel periodo, mi facevo domande: etica e lavoro, spiritualità e lavoro.

Cosa hai trovato “più tuo” nel progetto?

Utilizzare il lavoro per aiutare gli altri. Io sono da sempre un osservatore. Nella mia esperienza, anche casualmente, ho notato come tutte le volte che nel mio lavoro aiutavo le persone, prendendo anche decisioni antieconomiche, alla fine mi tornava indietro un vantaggio economico che andava a coprire totalmente la perdita, o addirittura migliorava le condizioni iniziali. Ho notato il legame presente tra l’aiuto degli altri e l’avere fortuna. Ricordo ad esempio un caso eclatante di qualche anno fa: mi misi dalla parte di un lavoratore, in una disputa con un grosso cliente che arrivò a chiedermi una contro testimonianza. Rifiutai, sapendo bene di aver perso quella grande commessa. Quel cliente, infatti, mi abbandonò all’istante. Il giorno dopo, senza che io lo cercassi, arrivò da me un’altra azienda che andò ad occupare lo stesso identico spazio di fatturato che avevo appena perso. E così è stato anche dopo: sembrava che i clienti arrivassero da soli. Una cosa strana. Sembrava che il libro della Spei raccontasse storie come questa, ma non so se da voi funzioni ancora così. Funziona ancora?

Negli ultimi mesi, tra nuovi clienti e un periodo di cassa integrazione, la Spei riesce a mantenersi.

Sono contento perché non dev’essere facile, non basta solo la volontà di fare del bene. Il discorso generale deve essere anche sostenibile: l’azienda, per fare il bene, deve essere in utile. Per esserlo, deve offrire un servizio di qualità. Ma per offrirlo, non può assumere solamente dei “casi umani”: serve anche chi garantisca la qualità. È grazie ai risultati raggiunti, alla solidità economica, che si possono aiutare le persone.

Dicevi del legame tra la fortuna e l’aiuto del prossimo.

Sì. Un aspetto, ben descritto nel libro, che avevo vissuto in prima persona. Mi è capitato molte volte di trovarmi davanti al bivio tra “una scelta economica” e “una scelta giusta”, domandandomi se fosse meglio “guadagnare di più e con quei soldi aiutare” oppure “guadagnare di meno e aiutare”. Quando ho letto il vostro libro stavo riflettendo su una scelta di questo tipo. E in quel momento, la lettura mi ha caricato. Dovevo continuare su quella strada, perché anche altre persone la stavano seguendo, addirittura in un modo più coraggioso del mio. La Spei rischia molto perché assume una persona, pagandola, prima del lavoro.

 

A volte.

Stefano si espone molto più di me. Un conto è assumere una persona e ridurre gli utili un conto è assumere una persona ed andare in perdita.

Dopo la lettura del libro hai rincontrato Paolo?

Ci siamo incontrati casualmente al bar dei Quattro Passi, una località di Formigine. Seduti al tavolo c’erano, oltre a lui, anche Stefano Pesaresi e l’autore del libro, Giorgio Casali. Appena mi vide entrare, Paolo mi invitò a sedersi con loro, con la faccia di chi stesse assistendo ad un miracolo. Lì ho conosciuto Stefano, che fino a quel momento era per me solo un “personaggio di romanzo”, e mi ha fatto una bella impressione. È stato un colloquio interessante. Poi ci fu anche lo strano episodio della cameriera…

Quale episodio?

Dopo aver pranzato, arrivò una cameriera al nostro tavolo. Ordinammo un’acqua per me e un caffè per Stefano. Appena dopo aver scritto sul block notes, la cameriera ricapitolò ad alta voce: «Dunque, un’acqua fuori frigo e un caffè lungo». Né io né Stefano avevamo specificato con lei il tipo di caffè e la provenienza dell’acqua, ma erano proprio le caratteristiche che volevamo entrambi. È stato strano.

Ricordi questo episodio come centrale in quel primo incontro?

Lo ricordo bene perché ne abbiamo parlato altre volte insieme. In quegli stessi giorni, inoltre, Stefano ne riportò un racconto sul sito della Spei.

Ti è sembrato un miracolo?

Non lo so, miracolo è una parola da tenere per cose più grandi. Però per Paolo e Stefano, era stato un angelo a suggerire alla cameriera il caffè lungo e l’acqua fuori frigo, anche perché subito dopo la stessa cameriera sbagliò con me un ordine di frutta, segno secondo Stefano, che l’aver indovinato poco prima caffè e acqua non era dovuto alla sua perspicacia. Secondo Stefano l’angelo voleva dimostrarci che era lì con noi. In quel bar vado spesso, almeno due volte la settimana, e sanno che voglio l’acqua fuori frigo: ma quella cameriera era stata assunta da pochissimo. Io dico che è stato un fatto strano. Sarei ben contento che un angelo si preoccupasse di me così da vicino… Magari fosse stato un segnale di presenza! Diciamo che in quell’“atmosfera di miracoli” ci stavo bene… Pensai che se fosse davvero stato un segnale seguire la Spei era ancora più interessante.

Di cosa avete parlato al tavolo del ristorante?

Soprattutto di lavoro: CAD, disegnatori, progettisti, ingegneri… Io e Stefano ci lasciammo con l’intenzione di rivederci nel suo ufficio. E ci siamo effettivamente rivisti lì.

Come è andato il colloquio?

Non è stato un colloquio, ma un ulteriore dialogo. Gli parlai della mia più recente storia lavorativa, fino a proporre che potevo aiutare la Spei finanziando dei corsi di formazione.

Avete parlato della tua vita privata?

Molto poco, forse non ho lasciato molto spazio per quello. Però, alla fine dell’incontro, Stefano mi disse che entro tre giorni avrei ricevuto un segno, e che il lunedì successivo l’avrei dovuto richiamare per raccontarglielo. In quei tre giorni, speravo che mi arrivasse questo segno. Avevo le antenne drizzate. Ma purtroppo non mi è capitato niente.

 

Oppure non avevi il cuore abbastanza aperto per vederlo…

Può essere, anche se io sono una persona in cerca del “miracoloso”, quindi non metto resistenze di sorta, anzi…

Quindi tu non sei neanche un po’ scettico?

Non sono scettico verso quello che Stefano crede, ma verso il modo in cui lui lo esprime. Allo stesso tempo, sono scettico anche verso il mio modo di esprimermi, quindi magari il suo è quello giusto. E non lo dico per fair play, ma convintamente: non ho la certezza di essere nel giusto.

Cosa gli hai detto il lunedì successivo?

Nel rispondere ad un suo messaggio di invito a pranzo, scrissi a Stefano che non avevo visto alcun segno, e che forse non ero stato attento. Ci siamo sentiti al telefono e abbiamo parlato di alcune cose. Poi basta.

Avete progetti insieme?

Quello della formazione. Stefano mi aveva detto che viveva la difficoltà di dover insegnare il mestiere ai nuovi arrivati, perdendoci un sacco di tempo. Mi venne subito in mente che potevo finanziare progetti di formazione per disegnatori CAD 3D utilizzando la Spei come organo docente. Eravamo anche entrati nel dettaglio della questione: il docente proposto da Stefano era un ragazzo di La Spezia, [Andrea Giannessi], che non era però molto convinto dell’incarico. Quindi abbiamo rimandato, ma l’offerta è ancora valida.

La tua ditta avrebbe avuto un ritorno economico?

Abbiamo dei fondi immobilizzati. Se non li utilizziamo, rimangono all’ente che li gestisce. Quindi, non è che ci guadagneremmo dei soldi cash. Il ritorno più grande, però, arriverebbe dalla capacità di piazzare sul mercato una persona già conosciuta e formata. Allora sì che potremmo anche guadagnarci.

Hai avuto altri rapporti con la Spei?

Sono andato ad una presentazione del libro a Maranello, in aprile. Mi ha fatto piacere vedere tante persone, che la Spei avesse un seguito. Ce ne fossero di iniziative del genere, secondo me vanno verso una strada giusta! Le persone con un certo percorso dovrebbero sostenerle, non possono non farlo: questo non significa abbandonare la realtà, ma aiutare nel proprio piccolo.

Perché parli di “abbandono della realtà”? Vedi un rischio del genere alla Spei?

Vedo che è bellissimo quello che fa Stefano. Però assumere una persona e pagarla senza avere il lavoro, oppure mandarla da un cliente anche se non sa svolgere bene la mansione… Ci deve essere un minimo di collegamento con la realtà. Può essere che un disegnatore inesperto, se aiutato, possa diventare un bravo disegnatore; e può essere di assumere due persone quando un cliente ne cerca solo una; assumere invece molte persone senza avere richieste è molto rischioso… Ma se alla Spei ha sempre funzionato e continua a funzionare, è giusto continuare così.

Funziona con cassa integrazione, riduzione di orari e conseguente poca tranquillità dei dipendenti… Il messaggio della Spei è che questa mancanza di tranquillità sia un bene evangelico, quasi un’opportunità di santità, o una prova di santità…

Quello che dice Stefano è vero. Tuttavia le persone che fanno una tale scelta devono essere pronte, pronte a dire: «Non ho bisogno di niente, e quindi sono disposto a vivere in questo modo». Ma se le persone stanno male vuol dire che o non funziona o non sono pronte. Oltretutto, qualcuno potrebbe trasformare la fiducia nella provvidenza in una scusa per non lavorare: «Visto che a me pensa Dio, non mi do da fare e non mi guardo intorno». Invece, posso dire quantomeno per quello che sono state le mie esperienze, che chi spreca i talenti non viene aiutato. Ora et labora. C’è un sottile confine tra l’aver fiducia e togliersi dalle responsabilità. Credo si debba comunque rimanere alle regole del gioco che il tempo ci pone: siamo a questo mondo e dobbiamo mantenerci, contemporaneamente seguendo quelli che sono i nostri valori e i nostri principi. Non è possibile solo pregare, o pensare: «Siccome aiuto gli altri, il cibo mi arriverà dal cielo». Sarebbe troppo facile. Se una persona fosse pronta per una scelta del genere probabilmente farebbe il missionario. Scelta bellissima ma non forzabile, deve essere spontanea e autonoma. Per essere pronti bisogna prima liberarsi dai bisogni e dalle responsabilità.

Anche verso la ditta?

Soprattutto. Io, nel mio piccolo, so di avere la responsabilità verso le persone che lavorano con me. Se gli facessi prendere una strada unicamente di volontariato, gli creerei problemi. Quindi devo mantenere l’equilibrio.

L’incontro con la Spei ti ha cambiato?

No, la Spei non mi ha fatto cambiare. Però mi ha dato una conferma in un momento di riflessione. Mi è stata utile, un punto d’appoggio. Che Stefano abbia ricevuto così tante “sponsorizzazioni” dall’Alto è una cosa bellissima.

[Giovanni non autorizza la pubblicazione dell’intervista tramite qualunque mezzo. Chiedere eventualmente più avanti]