PERCHE’ IL DONO NON E’ LA SPEI

Cecilia ha ventisette anni, e da più di tre è novizia nell’istituto delle Piccole Sorelle di Gesù Lavoratore, a Modena, che hanno il carisma di far conoscere Gesù a chi non lo conosce, entrando nei luoghi di lavoro. Da qualche mese incontra i dipendenti della Spei ogni venerdì mattina, negli uffici di via Cattaneo, dove prega e parla assieme a loro.

 

 

Come hai conosciuto la Spei?

Ne ho sentito parlare la prima volta da mio fratello [Giorgio Casali], che è un vostro dipendente. Nel giugno dello scorso anno aveva fatto un colloquio di lavoro con Stefano. Me ne parlò un giorno che venne a trovare noi Sorelle al campeggio di Sant’Andrea Pelago, sull’Appennino modenese. Parlò con me e [suor Cristina], ricordo che era rimasto colpito dall’originalità di quell’incontro, perché Stefano aveva “indagato” nel suo passato, nella sua vita personale, entrando in ambiti che normalmente non sono di competenza di un datore di lavoro.

Perché te ne aveva parlato?

Perché al colloquio saltò fuori che Giorgio aveva una sorella in convento, lo stesso convento in cui, guarda caso, c’era una suora [suor Cristina] che Stefano aveva conosciuto qualche anno prima. Quando venne a trovarci, Giorgio tirò fuori l’argomento con lei, ed io ero lì ad ascoltare. Con Stefano, mio fratello aveva parlato poco delle sue esperienze di lavoro, ma molto della sua vita di fede, del suo cammino.

Che impressione ti aveva fatto Giorgio nel raccontarti del colloquio?

Avevo notato che mio fratello, nonostante scherzasse un poco sull’originalità del colloquio, era molto incuriosito. Lo vedevo scettico, ma non troppo. Comunque, non tanto quanto mi aspettavo. Mi sarei aspettata che da un colloquio del genere tirasse velocemente le somme con un: «È matto e qui chiudo», invece no. Stefano gli aveva detto: «Prima di assumerti devo parlarne con Gesù», nel senso che avrebbe dovuto pregarci sopra; per quella frase, per quanto lo facesse sorridere, o addirittura ridere, mio fratello non aveva chiuso in anticipo quella porta. Avevo scorto che era rimasta in lui un po’ di attesa, come a dire: «Vediamo se veramente pensa quello che dice, o è solo un pazzo».

Voi Piccole sorelle siete solite parlare tra voi delle cose che vi succedono, delle persone che incontrate o dei fatti di cui venite a conoscenza. Parlaste tra voi anche di questo colloquio?

Non subito, ne parlammo insieme più avanti, quando mio fratello fu chiamato alla Spei per raccontarne la storia attraverso le interviste a chi ci era passato. Da parte mia c’era stupore misto a preoccupazione, perché pensavo dentro di me: «Ben venga se qualcuno risveglia la fede in mio fratello, ma vorrei che ciò avvenisse in modo normale, che non fosse un matto ad aiutarlo, altrimenti è meglio aspettare qualcun altro…» Ricordavo solo quella sua frase: «Prima di assumerti devo parlarne con Gesù»; niente di male in ciò, ma poteva mettere il dubbio che fosse detta da uno che parlava da solo e credeva di essere un nuovo profeta… Ciò dipendeva solo dal fatto che non conoscevo Stefano.

Hai avuto modo di conoscerlo?

Sì, perché ha voluto conoscere “la sorella in convento di Giorgio”.

Hai quindi avuto modo di verificare se Stefano era matto, oppure no…

Sì, ho avuto modo di conoscerlo in ottobre, una volta tornata dal periodo dei campeggi di Sant’Andrea. Venne a trovarmi in convento, qui a Modena. Ero con suor Maria Grazia, la nostra madre superiora. Ci raccontò della sua esperienza di conversione, avvenuta nel 2005, e del passaggio da una ditta votata al business a una ditta con uno scopo più “trascendente”, più spirituale. Alla Spei il profitto non è più il fine ultimo, ma un mezzo. Ricordo che associava questo cambiamento all’intercessione di Maria, alla quale aveva poi affidato tutto, ditta compresa. Avendo intuito sincerità nel cuore di Stefano, ho pensato, sinceramente, «Se c’è Maria, Stefano è custodito».

Anche la ditta?

Anzitutto Stefano, e di conseguenza anche la ditta.

Gli parlasti di come entrasti in convento?

Eravamo io e suor Maria Grazia, l’incontro durò due ore abbondanti. Quando la madre dovette andar via, gli raccontai molto brevemente della mia esperienza.

Stefano parlò di come avvenne la sua conversione?

Ricordo in particolare due episodi che ci fecero pensare. A distanza di una settimana, tramite due persone, Stefano fu messo di fronte a due possibilità, quella del bene e quella del male. Un giorno incontrò un ex collega di lavoro [Luca Canepari], e lo trovò completamente cambiato; l’ultima volta che l’aveva visto versava in pessime condizioni personali, in uno stato di incuria e depressione; ora parlava di Gesù, e aveva la luce negli occhi: era come guarito. Solamente qualche giorno dopo, un suo dipendente si licenziò in malo modo, tra rabbia e grida: Stefano vide in lui [Matteo Faglioni] uno sguardo che lo fece pensare al Diavolo.

Uno sguardo diabolico?

Uno sguardo abitato dal male, coinvolto dal male. Lo sguardo del male. Pensai che era un buon punto di partenza per una conversione distinguere il bene dal male, perché ci sono poche vie di mezzo. E questa, mi sembra, è stata una prima opera di Maria.

Stefano ha raccontato più volte questo episodio, e sembra un racconto di Edgar Alla Poe. Tu gli hai creduto?

Gli episodi particolari, “paranormali”, di primo impatto mi lasciano scettica. Però ho cercato di fare il passaggio successivo, ovvero guardare i frutti di queste ipotetiche esperienze: ed effettivamente ho visto che quell’esperienza lo aveva aiutato a orientarsi per il bene. Per quanto episodi del genere mi possano lasciare scettica, li reputo possibili, a priori.

Un giorno, parlando con la vostra madre superiora di questo racconto, vidi nei suoi occhi la comprensione di chi aveva vissuto una cosa simile. Mi aveva dato l’impressione di aver preso sul serio il racconto di Stefano su quello sguardo, come se avesse parlato di scatole di crostini; come se anche lei avesse visto “il” male, e non solo le sue conseguenze, quella cancrena che lascia.

Ovviamente non conosco tutte le esperienze personali di suor Maria Grazia … Può essere che la madre ci abbia creduto davvero, e l’abbia davvero preso sul serio. Una persona che vive una vita spirituale, se è vera vita spirituale, conosce la differenza tra il bene e il male, e sa “quanto è male il male e quanto è bene è il bene”; sa quanto è rischioso il male, per se stessa e per le persone che incontra. Sa che quando il male prende piede si fa spazio e può abitare una persona, anche fisicamente. Quante storie di santi lo testimoniano, e quante possessioni diaboliche ci sono anche oggi. Ma, più ordinariamente, basta pensare a tutte le strutture di peccato che ci sono nel mondo…

Ad ogni modo, al di là di come si è manifestato, hai capito dal suo racconto che quell’incontro è stato per Stefano uno spartiacque.

Sì, proprio così.

Cambiamo argomento. Quando l’ho intervistata, suor Cristina disse che il carisma delle Piccole sorelle è quello dell’annuncio sul posto di lavoro…

È quello dell’annuncio, in particolare a chi non conosce Gesù. Come luogo specifico di apostolato ci sono anzitutto gli ambienti di lavoro. In questo contesto, l’approccio più importante è sicuramente l’ascolto unito al massimo rispetto per tutte le persone; l’ascolto è seguito immediatamente dall’inculturazione: il nostro essere presenti là dove vivono per almeno otto ore al giorno centinaia di persone diverse è importantissimo, perché “camminando con loro” si riesce a creare una mentalità condivisa di valori umano-cristiani. L’intento è quello di raggiungere, nel tempo, con paziente attesa, l’evangelizzazione delle culture, perché gli ambienti di lavoro si Salva e Chiudi “impregnino” di fede cristiana e di carità. Dagli ambienti di lavoro, poi, si passa alle famiglie dei lavoratori, agli ospedali, in qualsiasi luogo. L’amore che cerchiamo di portare alle singole persone, anche con gesti semplici di attenzione e di cura per ciascuno, e il tentativo di coinvolgerle in gesti concreti di amore (ad esempio con i ragazzi portatori di handicap, che seguiamo tutto l’anno), pian piano pone le basi perché esse possano aprirsi più facilmente al Signore, maturando con Lui in un vivo ed autentico rapporto di fede. Fede e carità hanno la stessa radice in Dio…

Con suor Cristina trovammo una similitudine tra voi e la Spei: voi andate dalle persone sul luogo di lavoro, alla Spei arrivano le persone sul luogo di lavoro. Lo scopo è comunque l’annuncio di Gesù. Parlaste anche di questo?

Quando è venuto a trovarci in convento non ricordo se saltò fuori l’argomento. Ne parlammo in un’altra occasione, negli uffici della Spei, una delle prime volte in cui ci sono andata, dalla metà di ottobre 2014.

Venne anche la madre superiora?

No, andai da sola. Parlai, un po’ da inesperta, dell’approccio delle mie sorelle negli ambienti di lavoro, che è un approccio di amicizia: il primo obiettivo è quello di farci presenti, poi da quello cerchiamo di instaurare una relazione con la persona.

Perché dici “da inesperta”?

Perché io non posso ancora andare negli ambienti di lavoro: sono ancora novizia, in un cammino di formazione.

Da quel 24 di ottobre vieni a trovare i dipendenti Spei ogni venerdì mattina… La Spei è un luogo di lavoro!

Sì. Stefano mi ha invitato a venire a trovare e conoscere nel tempo i dipendenti della Spei, come impegno. Essendo una realtà piccola e con una “buona base di accoglienza” per una religiosa, Stefano voleva ospitare qualcuno che fosse giovane come i suoi dipendenti e che allo stesso tempo stesse facendo una scelta… Stefano puntava anche sul fatto che non ero ancora “vestita”, secondo lui mi avrebbero sentito più vicina – in questo non sono molto d’accordo con lui, non penso che l’abito allontani, anzi… Ma capisco cosa intendesse dire: non era un rifiuto dell’abito, anzi…

Si può dire che alla Spei tu stia facendo la prima esperienza del carisma delle Piccole sorelle?

Sì e no… Nei modi, la mia è un tipo di esperienza diversa da quella che fanno le mie sorelle, perché loro passano per uffici e fabbriche e si fermano a parlare con la gente in modo “molto naturale”: alla Spei il discorso è “più organizzato”, l’approccio che uso da voi è diverso da quello che userò nelle fabbriche. Quando arrivo alla Spei Stefano interrompe il lavoro e riunisce tutti in ufficio… Negli altri posti non funziona così, quella delle Piccole sorelle è una presenza più discreta.

Cosa fai il venerdì mattina alla Spei?

Quando arrivo, dopo aver salutato chi c’è, ci ritroviamo nello studio di Stefano per un momento di preghiera guidato da lui. Generalmente recitiamo insieme una decina di Ave Maria. Poi, se non ci sono argomenti particolari di cui parlare, Stefano lascia qualcuno con me nello studio per parlare. Ecco, questo – l’avevo detto anche a Stefano – non è il “classico” comportamento delle Piccole sorelle. A me preme che chi parla con me lo faccia in assoluta libertà, senza sentirsi minimamente costretto; di per sé preferisco il momento in cui entro in ufficio e saluto, e magari parlò “occasionalmente” con qualcuno: è capitato con Enzo o con Khalifa, senza un vero e proprio incontro “stabilito” e organizzato.

Questo stile “stabilito” non è dunque quello delle Sorelle… Ma alla Spei questo è possibile, non è forzato.

Diciamo che non è “anormale” che avvenga alla Spei. Mi sembra che ai dipendenti, visto che sono chiamati – non obbligati – a fare periodicamente incontri di preghiera in ufficio, penso non faccia particolarmente “strano” fermarsi a parlare sotto invito con me. Li vedo così. Quelle quattro o cinque volte che si sono fermati con me erano assolutamente tranquilli. È a me che viene lo scrupolo: mi verrebbe più da dire «Lasciamo che le cose nascano in modo naturale».

La madre cosa dice di questo?

Abbiamo notato le differenze, ma la finalità è comune: essere strumenti di Gesù perché ogni uomo, donna, giovane e anziano possa sentirsi amato da Dio e possa gustare la Sua gioia e la Sua pace. Chi ha Gesù ha tutto.

Con chi hai parlato finora dei dipendenti?

Con Aziz, Dino, Khalifa, Susanna, Giorgio e Gianluca, prima che andasse a lavorare alla LB. Ho avuto modo di parlare “meno ufficialmente” anche con Enzo e Andrea [Fili]. È stato molto naturale…

Di cosa parlate?

Di solito mi raccontano di come sono arrivati alla Spei, ma poi possono nascere anche altri discorsi, venire fuori anche cose personali… Non credo siano particolari confidenze, non mi sembra proprio!

Come definiresti i vostri incontri?

Sicuramente non sono né sedute psichiatriche né confessioni, ma semplicemente possibilità di incontro con le persone, scambi di punti di vista e di esperienze… Non li definirei nemmeno “colloqui”.

Parli di Gesù con loro?

Sì, se salta fuori sì. Quando mi hanno chiesto della mia vocazione ho parlato necessariamente di Lui. Quegli incontri ci danno la possibilità di dialogare su argomenti anche di fede, può esserci l’occasione per questo. Personalmente comunque credo che la cosa più bella sia quando entro in ufficio e saluto tutti: è la cosa che sento “più mia” e del “nostro” carisma.

Stefano ha la capacità di “inserire” chiunque nella vita della ditta, tanto te quanto il commerciale disoccupato che viene da La Spezia [Bartocci] che ora tiene un corso settimanale al nostro personale del marketing… Siamo abituati al fatto che possa arrivare chiunque. Tornando al momento di preghiera in ufficio guidato da Stefano, com’è?

Diciamo delle Ave Maria, oppure altre preghiere classiche dalla tradizione cristiana – è molto bella la semplicità di quelle preghiere. Dopo le preghiere, Stefano richiama spesso a quella che è la “missione della Spei”: è un re-invito, una rimotivazione, un richiamo a questa missione.

E qual è la missione della Spei?

Mi sembra di aver intuito che la missione della Spei è quella di provare a vivere il Vangelo, e proporlo, anche in ambito lavorativo. Innanzitutto rientrare in se stessi e guardare ognuno nella propria vita i segni della presenza del Signore e anche di Maria, personalmente. È la proposta di riguardare la propria vita alla luce della fede. E della testimonianza di questa esperienza, sia personale che della ditta.

In che senso?

Una volta riconosciuto che la Spei va avanti, a detta di Stefano, per volontà del Signore attraverso Maria, non va omesso nella presentazione ai clienti. Anzi, non solo non va omesso, ma va proposto come il perno della ditta!

Dici “a detta di Stefano”. Secondo te, può essere che questa ditta vada veramente avanti di Provvidenza?

Sì, ci sono tanti episodi effettivamente provvidenziali. 

Ad esempio?

Il fatto che Stefano abbia come stile quello di non mandar via nessuno di chi arriva, e quindi si prenda a cuore la vita di chi arriva… Io credo che il Signore “giochi” su questa fede, di Stefano e della ditta. “Giochi” nel senso: «Dovevi solo dimostrarmi che eri disponibile ad accogliere anche questa persona. Non l’hai scartata, adesso penso io a lei.»

Esempi?

Ultimamente, una persona [Renato Iori] che la madre superiora aveva raccomandato per un lavoro – e che da tanto tempo cercava lavoro in tante ditte senza essere mai accolto – è stata presa a cuore da Stefano. Effettivamente, nel giro di pochi giorni Stefano è riuscito a trovargli un lavoro, esterno alla Spei.

Spiegati meglio.

Una settimana fa, Suor Maria Grazia raccomandò a Stefano un uomo, disoccupato da anni, perché potesse trovargli un lavoro. Stefano gli fece fare un colloquio, pur sapendo di non aver la possibilità al momento di dargli un posto alla Spei. Venne fuori che aveva già lavorato come disegnatore meccanico, anche se a Renato il mestiere non era mai piaciuto. Stefano comunque promise di aiutarlo, senza lavarsene elegantemente le mani; si è preso a cuore la situazione. Penso che questo gesto di accoglienza, che è poi anche una fiducia, chiami la Provvidenza del Signore.

E poi cosa è successo?

Durante il colloquio, Renato disse che non necessariamente avrebbe voluto lavorare come disegnatore. Sembra strano, ma forse proprio il fatto che i colloqui di Stefano vertano sulla persona che ha davanti e non sul suo curriculum, può avergli dato la libertà di manifestare per inciso il suo desiderio di lavorare come potatore in un’azienda agricola! In un “normale” colloquio di lavoro un simile desiderio non sarebbe mai venuto fuori. Con commozione, tra l’altro, disse alla Madre che in nessuno dei tanti colloqui di lavoro si era mai sentito così compreso, stimato, incoraggiato e sostenuto come da Stefano.

Certo. È come se uno andasse alla Kera Koll e dicesse “per inciso” che gli piacerebbe lavorare come gelataio.

Fatto sta che qualche giorno dopo, un amico di Stefano [Paolo Rossi Barattini] contattò lo stesso Stefano dicendogli che stava cercando un potatore per i suoi campi, perché quello con cui s’era accordato si era ammalato! Dopo quattro anni di disoccupazione, Renato aveva trovato il lavoro che gli piaceva: sarà anche una coincidenza, però una coincidenza piuttosto singolare… In questo senso il Signore “gioca”: «Ti ho promesso che ci penso io», e ci ha pensato effettivamente Lui. Forse, se nel colloquio non fosse saltato fuori quel desiderio di potare le piante, a Stefano non sarebbe venuto in mente di fare a Paolo il nome di Renato.

Sembra quasi un’equazione.

Sì. Di primo acchito uno potrebbe dire «Bellissimo, però quanto durerà?». Forse è poca fede.

Forse la domanda giusta è «Bellissimo, da quanto dura?».

Esatto. In effetti, magari inspiegabilmente, la ditta può vantare quasi dieci anni di vita, o comunque di sopravvivenza.

In questo momento cerchiamo di sopravvivere. La Spei non ha mai avuto tanti dipendenti come ora, e la gente, come ben sai, continua ad arrivare. Pensa che la sola suor Maria Grazia ha presentato alla ditta quattro persone dallo scorso ottobre…

E tra questi, i primi sono stati [Andrea Uggeri], subito assunto, e [Salvatore Pescarito], che in un solo giorno in ufficio ha trovato lavoro da un’altra parte!

La domanda «Bello, ma quanto durerà?» ce la facciamo comunque tutti alla Spei, sia Stefano che noi dipendenti. Effettivamente la nostra struttura non è mai stata così grande – tredici dipendenti – e la congiuntura esterna è sempre di crisi economica, anche nel settore meccanico. La scorsa settimana il nostro Andrea [Fili] è stato respinto da una ditta dopo sette giorni di prova, e [Fabrizio] ha deciso di lasciare la Spei: è stato un periodo di grande preoccupazione per tutti noi, perché dovevamo contare su due entrate in meno di quelle previste, a parità di struttura. La domanda era: «Il 31 di gennaio saremo aperti?». Tu, alla domanda «Bello, ma quanto durerà?», cosa risponderesti?

A dubitare mi sembra quasi di mancare di fede, d’altra parte non nego il bene che c’è, e che il Signore ha davvero provveduto nella Spei. Però, da incompetente nel campo lavorativo e di marketing, non so quali e quante garanzie debba avere una ditta per andare avanti…

È facile: con clienti si va avanti, senza clienti si chiude.

Non nego che da atti di fede nasca qualcosa di buono, e alla Spei esempi in tal senso non mancano. Però riconosco che bisogna pure mirare alla qualità, e che i conti tornino.

Mettiamola così: se non ci fosse l’aiuto di Dio, una ditta come la Spei chiuderebbe?

Sì. Perché verrebbe schiacciata dallo logica del mondo.

È giusto chiedersi fino a quando Dio ci aiuterà? Dobbiamo chiedercelo?

Forse no. Mancherei di fede proprio a pormi la domanda, non a dare una risposta. Una domanda giusta e legittima e doverosa che ogni ditta deve farsi è invece: «Quanto dureremo alle presenti condizioni?»: perché non dubita di Dio, ma si assume la responsabilità nei confronti dei dipendenti. Lavorare al meglio e insieme confidare nell’aiuto di Dio sono due aspetti che non vanno in contraddizione.

Credo ci siano appunto “due binari”. Il primo è quello dell’impegno umano, il secondo è quello della “confidenza” con Dio: col primo tutte le ditte hanno necessariamente a che fare, col secondo no, perché dev’essere una scelta. Alla Spei, finora, più si è rischiato nella “confidenza” con Dio, più è arrivato il Suo aiuto. Non c’è contrasto tra i due binari. Credo che anche una ditta con tanti dipendenti possa fare come noi: invece che assumere persone solo dopo aver ricevuto un ordine straordinario, tenere la gente, per fede. Avrebbe a che fare con entrambi i binari.

Certo che un conto è fare questo ragionamento con una comunità religiosa come la nostra, che vive solo grazie a donazioni, un altro con un ambiente di lavoro. Don Calabria, un santo sacerdote di Verona dell’inizio del secolo scorso, grande apostolo della Divina Provvidenza, diceva che la prima Provvidenza è la testa sul collo: anche agli uccelli il Signore ha dato la testa e il becco per cercarsi il cibo … oltre che le ali!

Quindi, andiamo avanti?

Eh sì, andate avanti, continuate a mettere i cinque pani e i due pesci…

Provo sempre ad inserire la Spei come incognita di un’equazione, ma non ci riesco mai. Non funziona così, è la logica dei due binari… Come sai, il motto della ditta è “Credere nel cambiamento”, il cambiamento della persona dalle ferite che si portava dietro e che guariscono, o sono sulla via della guarigione. Hai potuto vedere qualcuno di questi cambiamenti?

Le ferite sono inevitabili per la nostra condizione umana… Per quanto riguarda i cambiamenti delle persone, posso dire qualcosa di mio fratello, sugli altri posso limitarmi ai racconti di cui ho sentito parlare. Il cambiamento maggiore che avviene lì dentro è il riavvicinamento alla preghiera, e quindi ai sacramenti e alla vita di fede… Dalla preghiera, almeno, un’apertura verso Dio. Mi viene in mente un episodio descritto nel [vostro libro], in cui Gianluca, che non aveva mai pregato in vita sua, col tempo ha iniziato ad attaccare le Ave Maria… Oppure di Andrea, che per abitudine neanche parlava di preghiera, ed ora non esclude più l’esistenza di Maria, e addirittura il Suo intervento nella ditta! Negli stessi dipendenti, che comunque sono liberi di rifiutare qualunque invito, qualche frutto si vede…

La bellezza della Spei, comunque, non deriva solo dal fatto di raccontare cosa le succede, ma soprattutto dalla cura messa nell’ambiente dei lavoro: è già questa una testimonianza. Nel libro mi è molto piaciuto il capitoletto delle “Pulizie”, perché racconta che il datore di lavoro si preoccupa delle “pulizie” nei rapporti tra colleghi, cioè che i rapporti di lavoro fossero il meno possibile intaccati dalla zizzania; ecco, questa è una bella testimonianza: è più quotidiana, più semplice, il frutto di una “pastorale del lavoro”. È bello avere a cuore non solo il lavoro, ma anche le relazioni umane, perché non si parla di macchinari, ma di persone. E le persone non sono robot. Questo vale per la Spei, ma dovrebbe valere per qualunque altro ambiente di lavoro. È proprio la preghiera a far nascere questa attenzione alla cura delle persone: mostra che il fine è la persona, non il lavoro. Se si curano i conflitti, non è perché così si produce di più, ma perché le persone diventano “più se stesse”… E poi logicamente lavorano meglio. Comunque, alla Spei i frutti si vedono: l’apertura al Signore, se è vera apertura, ti cambia la vita.

Cosa diresti della Spei a una persona appena conosciuta sul treno?

Direi che è una ditta in cui c’è un datore di lavoro che ha fatto un’esperienza di conversione che ha cambiato la sua vita; da questa conversione, ha capito che il cambiamento doveva riguardare anche la ditta che guidava, e farsi strumento per raggiungere anche tutte le persone coinvolte.

Secondo te, qual è il ruolo della Spei in questo cambiamento?

Prima con la testimonianza personale di Stefano – «Un cambiamento è avvenuto!» –, poi con la testimonianza delle persone che ci lavorano, infine con la testimonianza della stessa ditta che va avanti, la Spei annuncia che il Signore non è estraneo a niente.

Ultima domanda. Se tra un mese la Spei chiudesse, tu cambieresti idea?

No.

Se chiudesse, significherebbe che non era un’opera di Dio?

No, se una cosa è buona è buona. I frutti non finirebbero, neanche se chiudesse la Spei. I doni non vengono meno: perché il dono non è la Spei, il dono è Gesù, e Lui non viene meno. Quello che conta non finisce. I mezzi, gli strumenti, le strutture, il modo, possono anche fermarsi o cambiare; il punto è: «Cos’è fondamentale?». Se fosse fondamentale la Spei come struttura allora direi: «È tutta una farsa», ma visto che fondamentale è “far conoscere Gesù”, non sarebbe fallito niente. Lo dice sempre anche suor Maria Grazia: se chiudessero tutte le fabbriche del mondo, non finirebbe il nostro carisma, “l’annuncio di Gesù ai più lontani”.

Neanche se le Piccole sorelle esaurissero le vocazioni…

Il carisma non verrebbe mai meno, perché i doni di Dio sono irrevocabili … Certo, ciò non ci vieta di pregare perché di vocazioni ce ne siano ancora, e tante!

04/02/2015