QUANDO QUALCUNO ALLO SBANDO TROVA IL SUO POSTO NEL MONDO

 

26/08/2015

Caterina ha sessantacinque anni e vive ad Albareto, nella prima bassa modenese. Sposata e con figli, è stata per decenni titolare di una ditta produttrice di sacchi derivati dalla macellazione suina. Una ventina di anni fa si è convertita al cattolicesimo. Ha una accesissima sensibilità spirituale e alla Spei ha portato due nipoti, Stefano e Matteo, a distanza di tempo.

Come hai conosciuto la Spei?

Tramite un ragazzo che conoscevo, Fabrizio [Albanese], che cercava lavoro da molto tempo ed era in una grande disagio personale. Anche lui aveva delle difficoltà ad adattarsi a questo mondo. Poi, un bel giorno, mi disse che aveva trovato lavoro. Ero molto stupita. Mi parlò di Stefano e della Spei. Soprattutto di come Stefano metta tutto sotto il manto di Maria, e di come nel suo ufficio siano avvenute cose che ordinariamente non accadono e che hanno dato lavoro anche a persone in un momento in cui lavoro non c’era. Lavori arrivati dunque attraverso la preghiera di Stefano, e del gruppo, a Maria.

Francesco ne era convinto? Non si sono mai visti episodi del genere nell’ultimo anno. Due clienti nuovi sono arrivati, perché gli è piaciuto il progetto, e soprattutto perché ci siamo stati dietro parecchio.

Ordinaria amministrazione e non miracoli, vuoi dire. Cose straordinarie sono accadute nel periodo iniziale della Spei. Soprattutto la storia di quel famoso ragazzo marocchino [Aziz], per cui arrivò un lavoro che nessuno si sarebbe mai aspettato, in merito all’unica cosa che al momento sapeva fare: delle fotocopie. Fabrizio non credeva ciecamente a tutto. Stefano invece sì: quando gli ho parlato la prima volta ho trovato in lui una fede enorme. Soprattutto nell’affidarsi alla provvidenza, che magari avessi io. Sono personalmente convinta che se si crede veramente in qualcosa succede veramente. Sarà perché in ognuno c’è una scintilla divina, sarà perché l’ha detto Cristo: «Se hai tanta fede da credere che quella montagna si sposterà, quella montagna si sposterà». Ancora oggi, nella mia giovane età, mi chiedo sempre da dove arrivano le cose “particolari”.

Perché hai incontrato Stefano?

Fabrizio continuava a lavorare alla Spei con mille punti di domanda. Una sera Stefano venne con lui ad uno dei rosari che organizzo di tanto in tanto a casa mia, e lì lo vidi per la prima volta. Un giorno, poi, mi decisi a chiamarlo per parlargli di mio nipote Stefano [Verucchi], che al tempo aveva gravi problemi di salute oltre che di lavoro, un caso disperato. Andai in punta di piedi, perché sapevo di parlare di una cosa importante e difficile. Siamo stati insieme tre ore. Ai miei timori, Stefano si mostrò molto sereno. Disse che non dovevo preoccuparmi e di dare il suo numero a mio nipote, perché Maria avrebbe saputo cosa fare. Con mio nipote è successa una storia molto bella: ringraziando il Cielo sta ancora lavorando alla Spei, grazie all’insegnamento professionale che ha ricevuto e al proprio impegno. Da tanto tempo pregavo Maria di poter aiutare mio nipote: l’ho presa veramente come una sua risposta, un regalo del Cielo, perché la situazione era drammatica. Quindi, la Spei ha letteralmente salvato Stefano.

In che modo l’ha salvato?

Gli ha dato fiducia, in un momento – ecco dove sta il miracolo – in cui la società gli chiudeva le porte in faccia. Era molto malato, [una depressione bipolare che lo affliggeva], e nessuno lo accettava. Sono convinta che il suo ingresso alla Spei sia stato un dono del Cielo.

Il miracolo è la Spei o il fatto che qualcuno non gli ha chiuso la porta in faccia? C’è una bella differenza. Stefano vede la Spei quasi come un santuario.

Per quello che riguarda la storia di mio nipote Stefano, anch’io definisco la Spei in un modo simile, senza esagerazioni.


Un luogo sacro?

Un luogo “santo” più che “sacro”. Sacro è un santuario, o il Preziosissimo Sangue di Gesù. Ma santo sì, nel senso di accoglienza e apertura a chi bussa alla sua porta. Non una santità “alla Padre Pio”, ma allineata con quello che è Dio, in questo senso. Si sono trovati due mondi che erano pronti: quello di mio nipote, che aveva fatto anni e anni di gavetta prima di arrivare all’umiltà di accettare un posto come la Spei, e quello di Stefano Pesaresi con la sua ditta. Io parlo di “miracolo” quando qualcuno allo sbando trova il suo posto nel mondo e intraprende la strada giusta. Dal momento che non siamo solo carne, credo ci siano dei fili invisibili che possano aiutare.

Stefano crede che tutto ciò che avviene alla Spei dipenda dal suo rapporto con Maria.

Nei primi quattro anni dalla mia conversione, io ero come Stefano. Nel senso che chi si innamora di Dio e ne fa una esperienza vissuta personale molto forte, diventa “pazzo” agli occhi del mondo. È un’esperienza talmente forte e appagante che vorresti trasmetterla a tutti. Capisco quello che Stefano prova perché l’ho provato anch’io, e mi auguro che gli duri così per sempre. L’esempio che meglio rappresenta l’innamoramento spirituale è quello dell’innamoramento tra un ragazzo ed una ragazza, che vivono solo se l’altro c’è: chi gli toglie la convinzione di quell’amore? Quindi, in qualche modo, finiscono con il propagandarlo, con l’esprimerlo. È quello che accade a Stefano e che è accaduto a me, anche se negli anni ho cambiato: ho capito che questa “follia” è inutile sbandierarla ai sette venti, perché si ottiene l’effetto contrario. Da quello che dici, faccio questo rilevamento: la Spei è un miracolo solo per il fatto che Stefano accoglie chiunque a braccia aperte. “Non va bene”, se posso usare questa espressione, parlarne e propagandarla nel modo che utilizza Stefano, perché più che aiutare le persone a vivere la quotidianità nella Spei, le disorienta. Meno chiacchiere e più succo.

Dopo aver portato alla Spei Stefano [Verucchi], quest’anno hai presentato un altro tuo nipote, Matteo.

Mio nipote, Matteo, ha una vena di rifiuto molto forte per tutto quello che è spirituale. Abbiamo un ottimo rapporto, viene sempre a trovarmi e a parlare con me, ci vediamo almeno una volta a settimana. Lui sa tutto di me, anche degli eventi spirituali molto forti e particolari che ho avuto. Spero sempre in una sua conversione, ma di fatto con lui non faccio apostolato: parliamo dei suoi problemi. È molto bloccato in sé stesso. Un giorno gli parlai della Spei, sperando ci fosse per lui una possibilità di cambiamento.

Nel senso di conversione?

Sì, ma prima di tutto umana: trovare meglio sé stesso, abbattere certi muri. Con Matteo parlo proprio di “cambiamento”, perché il modo in cui lui affronta la vita gli fa sbattere tutte le porte in faccia. E non è questione di spiritualità o di miracoli, ma di adeguamento alla società: una questione di individualità personale, affinché viva meglio con sé stesso, con la famiglia, col mondo. Matteo ha avuto spesso scontri forti in famiglia: se riuscisse a guardare le cose con più maturità e distacco, con più misericordia, non andrebbe così spesso in crisi. Per lui è tutta colpa del mondo. Per questo avrebbe bisogno di un cambiamento, per vivere meglio in generale.

Per Matteo c’è stato un cambiamento alla Spei?

Matteo purtroppo tende più alla negatività che alla positività, e qualcosa che c’è in lui gli fa aborrire tutto quello che è sacro. Forse non era il momento giusto per lui di venire alla Spei. Comunque, secondo me, chi entra alla Spei entra in un luogo di grande spiritualità: c’è una grande fede da parte di Stefano e c’è preghiera. La preghiera è un’energia: se fatta col cuore, una potentissima energia. La Spei è una sorta di calamita per il bene, così come tanti posti della nostra terra sono una calamita per il male – se si parla di Dio si deve parlare anche del Male, questo è scritto anche nel Vangelo, che uno ci creda o no… Alla Spei c’è una fede forte, che non è “abitudinaria”. Chi entra lì dentro entra in contatto con una forte positività. Come accade a Medjugorje: chi ci va, senza chiusure o resistenze, entra in una grande energia positiva dal cui contatto si hanno grandi benefici. Allo stesso tempo, le persone che sono dentro la Spei, razionalmente, vedono anche tanta normalità, la normalità di un ufficio: sentirsi dire che “fa tutto Maria” può sembrare una sorta di presa in giro, di fissazione. Così è stato per Matteo.


Non è tanto il fatto della provvidenza, che quella c’è sempre. Tornando al tuo esempio dei “due innamorati”, per Stefano tutto quello che avviene a sé stesso e ad altri della Spei non dipende tanto da Maria, quanto dal suo rapporto con Maria. Non metto in dubbio l’innamoramento, ma la pretesa che tutto dipenda da questo suo innamoramento.

Capisco bene. Io personalmente “invidio” molto Stefano Pesaresi, nel senso che se avessi anch’io così tanta fiducia in Maria sarei una persona felice – e spero che Stefano lo sia. Faccio un altro esempio, un po’ diverso: chi è molto incentrato nella fede e in Dio prova quello che prova Stefano: basta guardare a Padre Pio, o ai grandi santi della Chiesa – non sto dicendo che Pesaresi sia santo, è solo un paragone che dipende da quello che ho vissuto anche io. I grandi mistici non sono più di questo mondo, perché vivono in funzione esclusivamente del rapporto che hanno con Gesù e con Maria. Per attirare a sé delle anime, e aiutarle, ci vuole però il modo: non dicendo “è stata Maria” per tutto – perché piove, perché c’è il sole eccetera – anche se quello è ciò che queste anime provano.

Il problema è quando Stefano si pone come mediatore esclusivo tra Maria e la Spei e tutto quello che accade.

Che lui abbia questa simbiosi con Maria, fino a quando durerà, è una cosa enorme e spero vada avanti per sempre. Sono poi d’accordo con te nel dire che nel mondo accadono tantissime cose in modo ordinario, tale per cui non possiamo sapere i confini “tra Maria e la normalità”… Credo che si possa ottenere molto di più in altro modo, un modo tale per cui anche uno come Matteo, mio nipote, non sarebbe scappato – anche se son convinta che ritornerà. Un modo che non metta continuamente davanti alle persone un “piatto” intriso massicciamente di Maria, come quando uno va in Chiesa e si sente sempre sgridato dal sacerdote. Uno sbandieramento di Maria può ottenere l’effetto contrario a quello voluto. Ad ogni modo dico che chi rimane alla Spei non può che trovarne giovamento, anche in un’ottica di fede: l’impatto formativo è forte. Mi viene da dire: «Grazie a Dio c’è Stefano Pesaresi», sfrondando tutto quello che è “troppo”, è “oltre”, che ha irritato Matteo: ciò è dipeso dall’umanità di Stefano, e quindi dalla sua imperfezione: non lo conosco bene, ma probabilmente ha bisogno di credere che c’è Maria dappertutto, perché può avere una grande insicurezza interiore, e quindi “eccede” per rassicurarsi.

Proprio per il fatto che l’amore tra lui e Maria è “perfetto”, niente è da cambiare nelle sue modalità e in quelle della Spei. Detto questo, anch’io credo che la su ditta sia un dono.

Più che un dono, è una “possibilità” che va oltre il fatto di trovare lavoro. Il lavoro è importantissimo, ma è come una ciliegina sulla torta: prima della ciliegina c’è la torta da fare. Una persona che nel mondo non trova spazio, alla Spei trova accoglienza. E stando alla Spei lievita, secondo me: nella personalità, nella solidità interiore, nella maturazione: e non è una cosa da poco. [Il lavoro non viene prima della storia di Matteo, di quello che è Matteo.]