Sposata dal 2009 e madre di una figlia, intelligente, spigliata e di bella presenza, Alice ha trentaquattro anni e lavora nell’ufficio marketing di una importante ditta meccanica. Laureata in scienze della comunicazione, alla Spei fece la sua prima vera esperienza lavorativa…
Quando hai lavorato alla Spei?
Ci ho lavorato undici mesi, dal febbraio del 2006 al gennaio dell’anno successivo. Ero alla mia prima vera esperienza lavorativa dopo aver conseguito una laurea in Scienze della comunicazione. Fui assunta in un periodo in cui il marketing della ditta andava totalmente riorganizzato: la Spei aveva appena perso un importante cliente, il quale gli aveva anche “soffiato” un nostro bravissimo collega [Lorenzo?]. Trovare nuove committenze era il mio compito principale, e devo dire che in meno di un anno riuscii a trovare importanti lavori per la ditta, clienti che restarono per molto tempo, anche dopo le mie dimissioni…
Nel 2006 la Spei era l’esperienza cristiana di oggi?
No, era ancora un ufficio tecnico ordinario, anche se intuivo che qualcosa stava cambiando. Stefano cominciò ad essere molto credente – prima non lo era così tanto, anzi, secondo me era addirittura ateo. Col passare del tempo, ebbe una sorta di “chiamata” – uso la parola che usano i preti – dovuta, a mio avviso, a una serie di concause: una necessità di cambiamento dovuta al fatto che l’azienda andava rilanciata, così come all’esperienza di alcune delusioni sul lavoro. Probabilmente, Stefano aveva bisogno di credere in qualcosa, e quel qualcosa l’ha trovato nel messaggio cattolico, che diventò per lui una linea guida tramite la quale reinterpretare tutta la vita, quella privata come quella lavorativa. La “religione” era entrata ovunque: la sua credenza – aiutare il prossimo, non preoccuparsi del futuro – veniva applicata anche alla ditta, tanto che le questioni lavorative venivano messe in secondo piano – anche troppo per i miei gusti [ride, ndr]. È vero, Stefano è sempre stato un imprenditore sui generis, ha sempre dato molta importanza all’aspetto personale coi dipendenti ed è sempre stato generoso – quando mi ha assunto, sapeva di prendere una persona senza competenze nel mondo della meccanica, eppure riuscì a formarmi bene – ma un cambio di rotta era visibilmente in atto.
Secondo te questo cambiamento poteva funzionare?
Dal mio punto di vista era bene scindere l’aspetto “missionario” del lavoro da quello delle relazioni personali e delle vita privata. Soprattutto per il bene della ditta: glielo dicevo, ma eravamo in disaccordo – nonostante avesse tutto il diritto di fare quello che voleva. Probabilmente, quello fu il motivo principale per cui me ne andai… Non condividevo l’evoluzione della filosofia imprenditoriale – arrivai a pensare che la Spei non mi avrebbe più garantito un futuro solido – e tutto il contorno, anche perché mi portavo dietro da tempo una brutta esperienza che mi aveva praticamente fatto perdere la fede: quantomeno, non ero in tutto e per tutto d’accordo con la Chiesa cattolica, e Stefano lo sapeva bene – proprio per questo cercava sempre di dibattere con me. Per lui tutto quello che capitava durante il giorno era un segno della Provvidenza, e andava riconosciuto… Però vedeva che con me “non attaccava” molto [ride]. Al tempo, in ufficio, eravamo in tre: oltre a me e Stefano, c’era pure [Valentina], ottima lavoratrice e soprattutto buona amica – dal punto di vista spirituale, lei era molto più in sintonia con Stefano. Ad ogni modo, l’evoluzione vera e propria della Spei c’è stata negli anni dopo la mia dipartita: lo so perché sono sempre rimasta in contatto con Stefano.
Su che punti eri in disaccordo con la Chiesa?
Ebbi una brutta esperienza durante l’adolescenza. Capitò un lutto a qualcuno della mia cerchia, una brutta disgrazia. Per anni e anni mi portai dietro una domanda di senso, una richiesta di perché. Ero arrabbiata con Dio, arrabbiata nera. Dubitavo della sua “grande bontà e misericordia” così come la raccontavano in Chiesa. Dicevano che bisognava avere fede e basta, che c’era un disegno su tutto, ma io non ero d’accordo. Dal momento che Dio ha creato tutto, e sa tutto, può anche intervenire per evitare le disgrazie: se non lo fa c’è qualcosa che tocca, significa che così buono non è. Pensavo in questo modo, e maturai una “mia religione”, una variante un po’ più “protestante” del cattolicesimo, che arrivai scherzosamente a battezzare “franchinismo”, dal nome del mio cognome, Franchini.Non accettavo il fatto che non si potesse dare ragione del male, che ci si dovesse accontentare di risposte quali “è una prova, bisogna avere fede”. Insomma, per Stefano ero la “miscredente” della Spei [ride].
Oggi la pensi uguale?
È passato molto tempo. Continuo a non avere risposte in merito, ma non sono più arrabbiata. Per questo adesso accetto la “visione cattolica” sull’argomento: “ci sono motivi che noi non conosciamo ma dobbiamo continuare ad aver fede”, un fatto che ho vissuto anche attraverso altre persone che, pur avendo subito disgrazie simili, hanno reagito in maniera diversa rispetto alla mia, con una fede incredibile. Tante cose ancora non le spiego, ma cerco di non “crucciarmici” troppo sopra: così facendo, ho riacquisito un po’ della fede che avevo perso, dando una “seconda chance” alla Chiesa. Vado a Messa la domenica con la mia famiglia. Anche se certe cose me le porterò sempre dietro, posso dire di aver fatto pace con la mia situazione.
23/08/2014