Un destino meraviglioso

Cosa fanno duemila ragazzi delle superiori a Firenze in un centro convegni per tre giorni? Non è l’inizio di una freddura, anche se la risposta è da teatro dell’assurdo: partecipano a un convegno su Verga. La mattina fuggono dalla loro scuola e poi paradossalmente ci «tornano», a loro spese.

Spesso la letteratura italiana a scuola diventa noia. La bellezza non può annoiare: allora siamo noi noiosi. L’opera d’arte, scrive Rilke, ci dice: «Cambia la vita».

Il reale è profondo, non è superficie, si manifesta sì in superficie, ma è profilo che, seguito fino in fondo, conduce alla pienezza, sfidando l’intelligenza a fare il suo mestiere: intus legere (leggere dentro). Se non fosse così non esisterebbe l’arte: anticamera della grazia. Lo sapevano gli antichi greci, che crearono statue di dei per parlare con gli dei, mica per abbellire il soggiorno.

L’anticamera a scuola spesso è priva di porte, perché dell’infinito si ha paura. Il mistero? Roba da bambini… o da poeti. E lo sa anche Jeli, il pastore di Verga: per lui «ogni cosa aveva il suo aspetto e il suo significato, e c’era sempre che vedere e che ascoltare in tutte le ore del giorno».

Non si tratta di cristianizzare gli autori, né di cercare la citazione che tradisce una loro appartenenza: clericalismo letterario. Si tratta di dialogare rimanendo se stessi, e lasciando lo scrittore essere se stesso. Solo così c’è dialogo, il logos viaggia tra (dia-) lettore e autore, in cerca della verità, che trascende la relazione che è l’atto della lettura.

Così ho letto ripetutamente Malpelo e Jeli, fino a farmeli amici, con quella che Charles Peguy chiama una lettura «ben fatta»: «Non è nientemeno che il vero e persino reale compimento dell’opera. Si tratta di una collaborazione letterale, intima, interiore e anche di una sconcertante responsabilità.

Vi è un destino meraviglioso, quasi spaventoso, nel fatto che tante grandi opere possano ancora ricevere un perfezionamento, un compimento dalla nostra lettura. Che spaventosa responsabilità per noi». Io la chiamo lettura «responsabile»: risponde al testo letto e riletto, in prima persona, con matita, anima e corpo.

Quante cose ho scoperto ri-ri­rileggendo: di me, dei miei ragazzi, del mondo. La letteratura è un modo per origliare se stessi quando non sappiamo ascoltarci, vagliare se i pensieri che abbiamo sono veramente nostri e imparare a rimettere a fuoco la vita, per cambiarla. Ma ogni cambiamento origina nella vita interiore, anche se l’occasione viene da quella esteriore.

Leggere moltiplica le occasioni. Quei racconti hanno risvegliato in me la misericordia per l’uomo, anche quello malvagio, per l’uomo che fa il male solo perché non è amato, la capacità di sentire l’altro uguale a me, nonostante le sue debolezze e la sua estraneità, fino a perdonarne l’antipatia e avversità, trasformando quell’odio prima in pietas, poi in empatia.

Sapessimo noi leggere di più e meglio, capiremmo cosa cercano quei duemila ragazzi a un convegno su Verga, dopo mesi di lavoro, ciascuno con un elaborato personale. Cercano la vita e la grazia. Miracoli? No. La normalità e la nostalgia di come potrebbe essere, di come sarebbe potuta andare. La scuola.

 

28 febbraio 2013 da Avvenire.it – “Miracoli a scuola” di Alessandro D’Avenia