Aiutare il prossimo non è un talento è una missione.
Ieri è venuto da me un uomo sulla cinquantina che non sapeva dove sbattere la testa. Mi raccontava di non essere più riuscito a trovare lavoro da più di 4 anni. Una moglie casalinga e due bambini. Dalla vergogna aveva deciso di partire di casa per venire a trovare la sorella e vedere se per caso ci fosse li un lavoro per lui. Sa fare un po di tutto e non si tira indietro su niente, ma senza nessuna specializzazione.
Poi mi racconta di quel giorno quando aveva 12 anni che si tuffò in un laghetto per salvare il fratellino di 9, che non sapeva nuotare. Lui stesso non è che fosse bravo. Il fratellino si era buttato per la paura, quando si è accorto che il canotto sul quale era seduto da solo, si era allontanato dalla riva. Dunque anche lui si tuffò lo agguantò comunque e si tirò il corpicino sulle spalle, ma così facendo andò sotto lui. Poi di nuovo tornò su e il fratellino giù. Lottò per diversi minuti, le sponde erano cosi scivolose che per aggrapparsi raspava con le unghie. Alla fine trovò un appiglio, ma fu tutto inutile: per il fratellino non ci fu più niente da fare.
Allora lui scappò. Scappò e non si fece più vedere per due giorni. Lo trovarono il terzo giorno, si copriva ancora il volto per il dolore e la vergogna.
Vergogna di essere il figlio maggiore e non aver saputo fare le veci dei genitori, di non aver saputo tenere a galla la famiglia, mentre la madre era casa con gli altri 3 e il padre al lavoro. La stessa vergogna di oggi di non riuscire a dare ai suoi bambini quella sicurezza. Quell’uomo – lo sento -annaspa ancora.
Perché aiutare il prossimo anche quando non si hanno i mezzi, non si hanno le possibilità? E quando chi chiede non ha né meriti ne talenti?
Per non continuare a sentire il grido di quel bambino che uomo non è mai potuto diventare e di quest’uomo che da allora gira l’Italia come un cieco una stanza vuota in cerca della porta per uscire.