Scriveva Kierkegaard: «lo non leggo Giobbe con gli occhi come si legge un altro libro, ma lo metto sul cuore… Ogni sua parola è cibo, vestimento e balsamo per la mia povera anima».
E, per stare allo stesso filosofo, pensiamo al sacrificio di Isacco (cfr. Gen 22) così come è letto da lui in Timore e Tremore: il terribile e silenzioso cammino di tre giorni affrontato da Abramo verso il monte della prova diventa il paradigma di ogni itinerario di fede, segnato dalla luce e dalla tenebra, in cui il credente deve giungere fino alla spogliazione totale di tutti gli appoggi umani, compresi gli affetti e le relazioni fondamentali.
Thomas S. Eliot parlava dei Salmi come di un «giardino di simboli» ma questa definizione può essere estesa a molti scritti biblici. Con la sua ricchezza simbolica la Bibbia è stata, quindi, «il grande codice» della cultura e dell’immaginario popolare ma è stata anche la presentazione di una fede che unisce in sé trascendenza e immanenza.
L’arte ha cercato di cogliere la «carnalità», cioè la storicità di quella rivelazione, ora esaltandola, ora trasformandola, ma ha anche saputo quasi sempre salvaguardarne la dimensione di segno, di mistero, di infinito e di eterno.
È ciò che può essere illustrato, in finale, attraverso un genere particolare dell’arte orientale cristiana, quello dell’icona, così come ce la presenta Pavel Florenskij: «L’oro barbaro e pesante delle icone, in sé futile alla luce del giorno, si anima con la luce tremolante di una lampada o di una candela in una chiesa, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste».
Arte e fede in questo senso s’incontrano. Le figure dell’icona e i loro fondi dorati sono terreni ma riverberano il divino e immettono in un’esperienza paradisiaca.
Tratto da “L’Occidente è nato nel giardino dell’Eden” di G. Ravasi – Avvenire.it