Ogni mattina fumo la prima sigaretta alle 7.20, fuori sul balcone e il caffelatte nell’altra mano. Vedo sempre passare una signora, fuori dal cancello, che cammina verso il centro. È sbilenca, si trascina nonostante la sua età non sia così avanzata. Dimostra comunque più anni di quelli che ha.
È stata lasciata dal marito, il quale l’ha sfrattata e vive con un’altra donna, di poco più giovane e più bionda. Lei, la signora che mi passa davanti, fa le pulizie ogni mattina, in nero, nella casa di un’altra signora. È sempre nascosta dall’ombrello, la immagino stringerlo anche quando non piove.
Quello che non scordo, ogni mattina che passa e non mi vede, è il suo sguardo impaurito come quello del bambino che ognuno di noi è stato, lo sguardo di chi sa che deve cavarsela da solo a scuola anche quando il cielo è grigio e il sole non si leva, e addosso quel senso d’abbandono, di subire ciò che non si vuole. Allora penso a tutta la gente che sta male, e ce n’è tanta, tantissima; penso a quella debole, emarginata, quella scartata.
E penso che la Spei dovrebbe avere muri giganteschi per poter ospitare tutti, far parlar tutti e parlare a tutti, uno per uno. Sentire chi sono, cosa hanno fatto, qual è il problema, uno per uno. Confortarli con altre parole e aspettare, come io sono stato aspettato. Perché se uno scrittore può lavorare in un ufficio tecnico allora può lavorarci un meccanico, un gelataio, una donna delle pulizie; e magari diventare qualcosa d’altro. Servirebbe un ufficio gigante, o un aiuto gigante esterno in opere e non omissioni. In carità e fede attiva.
Vorrei portarla quella signora, e tutte le signore e i signori che vedo e che penso non avranno la fortuna di sentire un progetto su di loro, un compito su misura da svolgere con desiderio e fede. Come quando si tratta di amare qualcuno.
giorgio casali
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